Nonne di servizio: la storia di due nonne italiane che riscoprono sé stesse tra corsia d’ospedale, figli troppo occupati e la fatica di essere indispensabili senza mai essere ringraziate

Nonne comode

Liliana Montanari si svegliò di soprassalto per un fragoroso scoppio di risate. Non si trattava di una risatina discreta, né di un timido sghignazzo: era una risata piena, tonante, di quelle che non sopportava da una vita intera, tanto più in una stanza dospedale. A ridere così era la sua compagna di stanza, che stringeva il telefono allorecchio e gesticolava libera con laltra mano, come se linterlocutore potesse vederla.

Ma dai, Lella! Ma stai scherzando? Lha detto davvero, davanti a tutti?

Liliana guardò lorologio appeso alla parete. Mancavano quindici minuti alle sette. Cerano ancora un quarto dora di silenzio, prima che iniziasse la giornata, un tempo prezioso per raccogliere i pensieri prima delloperazione.

La sera prima, quando era arrivata in reparto, la compagna già stava sdraiata a letto, trafelata a digitare sul telefono. Un saluto veloce, buonasera salve, nulla più. Liliana era stata grata per quel silenzio. E adesso, invece, il teatro.

Scusi, disse a voce bassa ma ferma. Potrebbe abbassare la voce?

La compagna si voltò. Un volto rotondo, un taglio corto e grigio che non cercava nemmeno di nascondere, un pigiama a pois rossi vistosi. In ospedale, per giunta!

Oddio, Lella, ti richiamo dopo, mi hanno già richiamata allordine qui, disse chiudendo la telefonata, rivolgendosi poi a Liliana con un sorriso largo. Chiedo scusa! Sono Caterina Bellini. Ha dormito bene? Io non riesco proprio a dormire prima di un intervento, così telefono a tutti.

Liliana Montanari. Se lei non riesce a dormire, non vuol dire che gli altri non ne abbiano bisogno.

Ma ora anche lei è sveglia, no? e Caterina le strizzò locchio. Va bene, prometto di sussurrare.

Non sussurrò affatto. Prima di colazione fece almeno altre due chiamate, e la sua voce si fece solo più squillante. Liliana si girò verso il muro, il piumone tirato su fin sopra la testa. Inutile.

Era mia figlia, spiegò Caterina a colazione, anche se nessuna delle due aveva appetito. Loperazione la preoccupa. Cerco di rassicurarla, poverina.

Liliana non replicò. Suo figlio non aveva chiamato, ma non se laspettava: la sera prima le aveva detto che avrebbe avuto una riunione importante. Lei lo aveva sempre educato così: il lavoro è una cosa seria, una responsabilità.

Portarono Caterina in sala operatoria per prima. Si allontanava per il corridoio salutando con una mano e dicendo qualcosa allinfermiera che rideva di cuore. Liliana pensò che le sarebbe andata molto meglio, poi, finita loperazione, se lavessero trasferita in unaltra stanza.

Unora dopo vennero a chiamare anche lei. Lanestesia non laveva mai sopportata. Si risvegliò con nausea e un dolore sordo al fianco destro. Linfermiera le spiegò che era andato tutto bene, che doveva solo avere pazienza. E lei la pazienza non le era mai mancata.

La sera, riportandola in stanza, trovò Caterina già sdraiata a letto, lincarnato smorto, gli occhi chiusi e una flebo al braccio. Silenziosa. Per la prima volta.

Come va? chiese Liliana, pur non avendo intenzione di iniziare una conversazione.

Caterina aprì gli occhi e le rivolse un sorriso debole.

Per ora sono ancora qui. E lei?

Anchio.

Rimasero in silenzio. Dal cortile saliva il crepuscolo ed il tintinnio sommesso delle flebo.

Mi scusi per stamattina, disse improvvisamente Caterina. Quando sono nervosa divento un fiume in piena, non riesco a smettere di parlare. So che posso essere insopportabile

Liliana avrebbe voluto dire qualcosa di pungente, ma le mancava la forza. Sospirò soltanto:

Non fa niente.

Quella notte nessuna delle due dormì. Il dolore era continuo. Caterina non telefonò più, non si mosse, ma Liliana la sentiva rigirarsi nel letto, sospirare. Una volta le sembrò persino che stesse piangendo. In silenzio, col viso affondato nel cuscino.

Al mattino venne la dottoressa, controllò le cicatrici, prese la febbre e disse ad entrambe: «Brave, va tutto bene». Caterina subito si aggrappò al telefono.

Lella, ciao! Niente paura, sono ancora viva e vegeta. Come stanno tutti lì? Ma davvero Gabriele aveva la febbre? E tu cosa? Già guarito? Eh, lavevo detto che non era niente di grave.

Liliana, suo malgrado, ascoltò. I miei quindi erano i nipoti. Dialogava con la figlia.

Suo cellulare taceva. Uno sguardo: due messaggi dal figlio. Mamma, tutto bene? e Scrivimi quando puoi. Mandati la sera prima, quando ancora stava uscendo dallanestesia.

Scrisse: Tutto bene. Aggiungendo un sorriso. Suo figlio diceva spesso che, senza emoji, i messaggi sembravano troppo freddi.

Dopo tre ore arrivò la risposta: Grande! Un bacio.

Nessuno dei suoi viene a trovarla? chiese Caterina a metà pomeriggio.

Mio figlio lavora. Vive lontano. E poi non ce nè bisogno, non sono una bambina.

Vero, assentì Caterina. Anche mia figlia mi dice sempre: «Mamma, sei adulta, ce la fai da sola». E perché dovrebbero venire, se va tutto bene, no?

Nel tono cera qualcosa di strano, che spinse Liliana a rivolgere uno sguardo più attento. Caterina sorrideva, ma gli occhi non ridevano affatto.

Quanti nipoti ha?

Tre. Gabriele, il più grande, ha otto anni. Poi Martina e Leandro, sono quasi coetanei, tre e quattro anni. Caterina tirò fuori il telefono dal comodino. Vuole vedere le foto?

Restarono così venti minuti abbondanti, Caterina che mostrava le fotografie: i bambini in campagna, al mare, davanti alla torta. E in ogni scatto cera lei: che li abbracciava, li baciava, faceva facce buffe. Della figlia, nemmeno lombra.

Mia figlia fotografa, spiegò Caterina. Non le piace stare nelle foto.

I nipoti stanno spesso con lei?

Praticamente vivo da loro. Mia figlia lavora, il genero anche, io… insomma, do una mano. Li porto allasilo, controllo i compiti, cucino qualcosa.

Liliana fece cenno di sì. Anche a lei era capitato. Nei primi anni dopo la nascita del nipote aiutava ogni giorno. Ora che era cresciuto, si vedevano meno spesso. Ora, giusto una domenica al mese, se i programmi coincidevano.

E lei?

Un nipote solo. Nove anni. Bravo a scuola, fa sport.

Lo vede spesso?

Qualche domenica. Sono molto occupati. Capisco.

Sì… Caterina si girò verso la finestra. Occupati.

Le parole si spensero. Fuori, pioveva a dirotto.

La sera, Caterina disse:

Non voglio tornare a casa.

Liliana alzò gli occhi dal libro. Caterina sedeva sul letto, le braccia strette intorno alle ginocchia, lo sguardo perso.

Davvero, non voglio. Ci ho pensato su… E non ne ho voglia.

Perché?

A fare cosa? Arrivo e trovo Gabriele che non capisce i compiti, Martina col fazzoletto incollato al naso, Leandro coi pantaloni strappati. Mia figlia lavora fino a tardi, mio genero sempre in trasferta. E io: lava-cucina-pulisci-vigila-aiuta. E nemmeno… esitò un attimo. Nemmeno un grazie. Perché la nonna deve, è normale.

Liliana non disse nulla. Sentiva un peso allo stomaco, difficile da ingoiare.

Scusi, mormorò Caterina, asciugandosi gli occhi. Che figura.

Non si scusi, rispose Liliana, sottovoce. Io… sono in pensione da cinque anni. Pensavo, finalmente posso occuparmi di me stessa, andare a teatro, alle mostre. Mi ero iscritta persino a un corso di francese. Durato due settimane.

Cosè successo?

Mia nuora è andata in maternità, mi ha chiesto aiuto. Sei la nonna, sei in pensione, non ti pesa, no? Non ho saputo dire di no.

E poi?

Tre anni tutti i giorni. Poi il nipote è andato alla materna, allora a giorni alterni. Poi scuola, una volta a settimana. Ora… si fermò un attimo, ora non servo quasi più. Hanno preso una tata. E io aspetto che mi chiamino. Se si ricordano.

Caterina annuì.

Mia figlia doveva venire a novembre. Da me. Ho pulito tutta casa, preparato dolci. Allultimo: «Mamma scusa, Gabriele ha la palestra, non possiamo».

E non è venuta?

No. I dolci li ho dati alla vicina.

Rimasero a fissare la finestra, la pioggia tamburellava contro i vetri.

Sa qual è la cosa più triste? disse Caterina. Non che non vengono più. Ma che io continuo a sperare. Tengo il telefono in mano pensando: magari adesso chiamano solo per dirmi ci manchi, non solo perché serve qualcosa.

Liliana sentì gli occhi pizzicare.

Anchio aspetto. Ogni volta che squilla penso: magari mio figlio vuole solo parlare. Ma no. Sempre qualcosa da sbrigare.

E noi sempre disponibili, sorrise Caterina amaramente. Siamo mamme.

Già.

Il giorno seguente iniziarono le medicazioni. Dolorose per entrambe. Dopo, stanche, rimasero distese in silenzio, finché Caterina disse:

Ho sempre pensato di avere una famiglia felice. Mia figlia adorata, genero bravo, nipoti gioiosi. Pensavo che senza di me non potessero. E invece qui ho capito che stanno benissimo anche senza di me. Mia figlia in quattro giorni non si è mai lamentata, anzi. Sono solo comoda, come una nonna-babysitter gratuita.

Liliana si tirò su sul gomito.

Anchio mi sento responsabile. Ho insegnato a mio figlio che la mamma cè sempre, aiuta e aspetta. Che i miei impegni non contano, i suoi sì.

Lo stesso, sospirò Caterina. Mia figlia chiama e io lascio tutto, corro.

Le abbiamo abituati a pensare che non siamo persone, disse Liliana con lentezza, ma soltanto mamme.

Caterina annuì, guardando il soffitto.

E adesso che si fa?

Non lo so.

Il quinto giorno, Liliana si alzò dal letto senza laiuto dellinfermiera. Il sesto, riuscì a camminare fino in fondo al corridoio e tornare indietro. Caterina le stava sempre dietro di un giorno, ma non mollava. Passeggiavano insieme, piano, appoggiate al muro.

Dopo la morte di mio marito mi sono sentita persa, diceva Caterina. Mia figlia mi disse: adesso hai uno scopo nuovo, i nipoti. Vivi per loro. E io lho fatto. Solo che il senso è tutto da una parte. Io per loro, loro per me solo quando serve.

Liliana raccontò del proprio divorzio. Trenta anni fa, quando il figlio aveva cinque anni. Come laveva tirato su da sola, studiando la sera, lavorando due lavori.

Pensavo: sarò la madre perfetta e lui sarà il figlio perfetto. Do tutto e lui sarà riconoscente.

E poi cresce e si fa la sua vita, concluse Caterina.

Esatto. Ed è normale. Solo che non mi aspettavo di sentirmi così sola.

Anchio non me lo aspettavo.

Il settimo giorno arrivò il figlio. Senza avvertire, allimprovviso. Liliana stava leggendo, seduta a letto, quando lui varcò la porta. Alto, elegante nel soprabito, un sacchetto di frutta nella mano.

Ciao mamma! le sorrise, la baciò in fronte. Come stai? Meglio?

Meglio.

Benissimo! Il medico ha detto ancora tre giorni e ti dimettono. Pensavo, magari vieni da noi? Sara (la moglie) dice che la stanza degli ospiti è libera.

Grazie, ma preferisco casa mia.

Come vuoi. Se cambi idea chiamami, ti veniamo a prendere.

Si fermò meno di mezzora. Raccontò del lavoro, del nipote, della nuova auto. Chiese se le serviva denaro. Promesse di tornare la settimana dopo. Se ne andò in fretta, sollevato.

Caterina era sdraiata e faceva finta di dormire. Quando la porta si chiuse, aprì gli occhi.

Suo figlio?

Sì.

Bello.

Sì.

Ma freddo come una lastra di marmo.

Liliana tacque. Sentiva un nodo in gola che le impediva quasi di respirare.

Sa, sussurrò Caterina, ci ho pensato… Forse dovremmo smettere di aspettare lamore da loro. Semplicemente lasciarli andare. Capire che crescono, hanno la loro vita. E noi trovare la nostra.

È facile a dirsi.

Difficile a farsi. Ma che alternativa cè? Restare tutta la vita ad aspettare che si ricordino di noi?

Cosa le ha detto sua figlia? domandò dimprovviso Liliana, trovandosi a darle improvvisamente del tu.

A mia figlia? Che dopo la dimissione devo riposare almeno due settimane. Ordine dei medici. Non posso tenerle i bambini.

Si è arrabbiata?

Ovvio. Caterina sorrise ironica. Ma sai che ti dico? Mi sono sentita più leggera. Come se mi fossi tolta dallo stomaco un mattone.

Liliana chiuse gli occhi.

Ho paura. Se un giorno dico di no, forse smetteranno di chiamarmi del tutto.

Ma ora chiamano spesso?

Silenzio.

Visto? Peggio di così non può andare. Può solo migliorare.

Lottavo giorno arrivò la dimissione, per entrambe nello stesso momento. Presto, nessuna delle due sapeva se si sarebbero mai più riviste.

Scambiamoci i numeri, suggerì Caterina.

Liliana annuì. Si passarono i cellulari. Rimasero un attimo vagamente impacciate.

Grazie, disse Liliana. Per aver condiviso questi giorni.

Grazie a te. Sai… erano trentanni che non parlavo così, sul serio, con qualcuno.

Anchio.

Si strinsero in un abbraccio goffo, attente ai punti doloranti. Linfermiera portò i fogli di dimissione e ordinò un taxi. Liliana uscì per prima.

A casa trovò silenzio e vuoto. Mise in ordine la borsa, si fece una doccia, si distese sul divano. Guardò il telefono: tre messaggi dal figlio. Mamma sei uscita?, Chiamami appena sei a casa, Non dimenticarti le pillole.

Rispose: A casa. Tutto bene. Posò il telefono.

Si alzò, prese una cartelletta dalla libreria. Dentro, una brochure del corso di francese e la stampa del calendario della stagione teatrale. Guardò la brochure, pensierosa.

Il telefono squillò. Caterina.

Ciao! Scusa se chiamo subito ma… ne avevo proprio voglia.

Mi fa piacere. Davvero.

Senti, ci vediamo? Quando saremo in forze. Tra due settimane magari. Un caffè. O una passeggiata. Se ti va, certo.

Liliana guardò la brochure, poi il telefono, ancora la brochure.

Certo che mi va. Ma non tra due settimane: sabato. Non ne posso più di stare chiusa in casa.

Sabato? Ma sei sicura? I medici…

Ho passato trentanni a pensare agli altri. Ora voglio pensare a me.

Allora è deciso. Sabato.

Si salutarono. Liliana riprese la brochure. Il corso di francese cominciava tra un mese, cerano ancora posti liberi.

Accese il computer e iniziò a compilare la scheda discrizione. Le mani tremavano, ma andò fino in fondo.

Fuori pioveva. Ma oltre le nuvole si intravedeva il sole. Un sole pallido, autunnale ma pur sempre sole.

E Liliana Montanari, per la prima volta, pensò che forse la vita stava per cominciare davvero. E inviò la domanda.

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