Quando il treno è già partito

22 ottobre 2024

Caro diario,

Il treno è ormai partito e con esso la nostra speranza di riavvicinarci.
Giovanni, mi ascolti davvero? Devo aspettare di arrivare a quarantanni per rimediare agli errori della tua giovinezza? Perché sto pagando io il prezzo di quel tuo garage, dove ti divertivi più di quanto ti divertissi con il nostro figlio? chiedo con amarezza, la voce rotta dallincredulità.

Alessandra, smettila di farne il contorno! ribatte Giovanni, quasi a difendersi. Sì, ero un idiota. Non ti apprezzavo, non capivo cosa stavo perdendo. Ora è tutto finito, Stefano non mi considera più neanche il padre.

E perché dovrebbe? sorrido amaramente. Per quindici anni ha vissuto non con il padre, ma con il vicino di casa. Credevi davvero di poter spegnere e riaccendere un figlio come accendere la televisione quando ti veniva voglia di giocare a papà?

Il suo sguardo si fa più scuro, il solito fastidio che vedo ogni volta che la questione del ruolo paterno è sul tavolo.

Basta, Aless! È già passato. Dammi unaltra possibilità, ti prego.

Che la tua possibilità finisca qui, sul mio petto, e che un altro bambino cresca senza padre? incrocio le braccia, il cuore già chiuso. Grazie, ma ho avuto più di quello che meritavo. Non si discute più.

Il suo volto si contorce in una maschera di risentimento; non trova parole, si limita a sbuffare irritato e a buttare lo sguardo sul cellulare.

Il conflitto sembra svanito, per ora. Ma la ferita è rimasta. Non è solo la sua pretesa a colpirmi: è per mio figlio, Stefano.

Ricordo ancora i miei ventitré anni, quando Stefano venne al mondo. Ero stanca, ma felice, stringendo tra le braccia quel piccolo fagotto avvolto in una copertina bianca. Giovanni stava sopra di noi, come un avvoltoio, senza mai allontanarsi. Sorrideva, aggiustava la copertina, mi baciava la fronte e a tratti, quasi in preghiera, prendeva il bambino in braccio.

È tutto come me! Con la stessa cicatrice sul mento esclamava, gli occhi brillanti. Sono padre adesso, Aless! Solo ora capisco. Facciamo tutto insieme: passeggiate, pannolini, calcio. Sarò il miglior papà del mondo, vedrai!

Io lo guardavo con lo stesso scintillio negli occhi. Credevo ogni sua parola, immaginavo una famiglia perfetta, colma damore, di cura e di risate condivise.

Ma la realtà, come spesso accade, si è rivelata più prosaica e crudele.

Una notte profonda, gli occhi cerchiati di stanchezza giravano attorno alla stanza, cullando il piccolo Stefano che piangeva per i colli. Era la terza volta in quella notte. Giovanni, infastidito, si girava sotto le coperte.

Doffi, lasciatelo! sussurra, alzando la voce a malapena. Domani devo andare al lavoro, devo alzarmi presto!

Io mi ritiravo in camera, le lacrime di impotenza a fior di pelle. Il bambino piangeva più forte perché voleva restare al letto, ma non avevo scelta. Chiudevo la porta e lo cullavo per ore, solo per concedere a Giovanni qualche ora di sonno.

Nel fine settimana, spenta dal sonno, osavo chiedere:

Giovanni, potresti portarlo fuori per due ore? Sono esausta, ho bisogno di dormire

Dopo, Aless, adesso non posso, ho promesso a dei ragazzi di aggiustare un’auto, devo aiutarli.

Ma non ce la faccio più

Sei forte, ce la farai. Tornerò e ti aiuterò.

La porta si chiudeva, lasciandomi sola con la forza che mi avevano sempre chiesto di essere, senza che quel poi mai arrivasse.

Il tempo passava, Stefano cresceva. Cercavo di creare un legame fra lui e il padre. Un giorno, gli porgo il piccolo, rosicchiato dalle mani, al papà che guardava la partita.

Prendilo, stai con lui un po, imploro, non più per un momento di tregua, ma per ricucire quella frattura.

Giovanni lo prendeva a controsenso, con lo sguardo fisso sulla TV, quasi fosse un pacco sospetto. Lo teneva con le braccia tese, senza avvicinarlo al petto, e dopo un minuto lo lasciava di nuovo sul pavimento, ritornando a tifare.

Stefano, ora di cinque anni, era sul tappeto a costruire una torre di mattoncini. Giovanni passava accanto a lui senza nemmeno guardarlo. Il ragazzo, a sua volta, non cercava più il suo sguardo. Lassenza era diventata la normalità.

Non posso definirlo un marito completamente incapace: porta a casa lo stipendio, aiuta in cucina, pulisce. Ma linfanzia di Stefano lha persa. È dunque sorprendente che ora, adulto, non lo consideri più il padre.

Stefano, come vanno le cose a scuola? chiede un giorno Giovanni, tentando di rompere il ghiaccio.

Eh tutto bene risponde il ragazzo, imbarazzato.

I voti? Spero tutto a posto insiste il padre. Se serve, ti do una mano. Non voglio che finisca a spazzino.

No, papà, grazie. Va tutto bene replica Stefano, correndo verso la sua stanza.

Se vuoi, possiamo andare a pescare questo weekend! grida Giovanni, ma Stefano non risponde più.

Io so che oggi ha una festa in classe, che ha invitato una compagna di cui è innamorato e che lui ha rifiutato. E so anche che la pesca non lo interessa più.

Il treno è partito. Stefano non è più quel bambino che bramava lattenzione di un padre. Linfanzia che Giovanni voleva recuperare è ormai persa. Quando lha capito, ha iniziato a pensare a un secondo test: un altro figlio. Io, che ho vissuto notti insonni, mi oppongo fermamente.

Le chiacchiere sono arrivate fino ai parenti.

Figlia mia, ascolta tua madre, concedi un secondo bambino. Giovanni è cambiato, è più maturo! dice la zia, inscenando la felicità di un nuovo nato.

Anche la suocera si intromette.

Aless, se non lo fai, lo perderai. Un uomo vuole essere padre, se non lo fa tu, qualcun altro lo farà. È vantaggioso per te, pensa al futuro: il primo figlio volerà via e il secondo rafforzerà il tuo matrimonio, ti darà compagnia nella vecchiaia.

Sentivo il peso di quelle parole come se il mio corpo fosse un oggetto di mercato. Non vedevano la donna esausta, ma solo la madre e la moglie.

Nel disperato, ho concepito un piano, quasi assurdo, ma efficace per far capire. Ho scavato nel nostro armadio una vecchia scatola di roba per Stefano e ho trovato un Tamagotchi polveroso, ancora funzionante.

Quando Giovanni è tornato dal lavoro, gli ho porge­to quel piccolo uovo di plastica con lo schermo grigio.

Cosè? ha chiesto, scrutando il regalo.

È il tuo periodo di prova. Dovrai curare questo animaletto come se fosse un bambino, ma bastano pochi click. Se dopo un anno il Tamagotchi è ancora vivo, saprò che sei pronto per un figlio vero.

Giovanni mi ha guardata perplesso, poi ha riso, pensando fosse uno scherzo. Ma la sua espressione è cambiata subito, divenuta irritata.

Sul serio? Metti a confronto un bambino vero con questo giocattolo!

Inizia tu con questo. Se non riesci a gestire questa cosa, di che bambino parliamo?

Ha infilato il dispositivo in tasca, ma nei tre giorni successivi si è alzato di notte per nutrirlo. Il quinto giorno è impazzito, ma non ha abbandonato la missione. Dopo una settimana si è lamentato di non riuscire a lavorare per colpa del sonno perso.

Lottavo giorno, rientrato a casa, ha lanciato il Tamagotchi sul tavolo; sullo schermo un crocicchio rosso indicava il fallimento.

Lho dimenticato, al lavoro cè stato un emergenza, ha detto, evitando i miei occhi.

Da allora le discussioni non sono cessate, ma sono calate. Lincomprensione persiste, e Giovanni non insiste più con la stessa veemenza.

Tre anni dopo, Stefano, ormai studente universitario, ha portato a casa la sua ragazza. Hanno annunciato di aspettare un figlio.

Giovanni è tornato a brillare, ora sogna di diventare nonno. Ha speso i risparmi per una carrozzina, comprato body troppo grandi e costruzioni con i piccoli pezzi, giurando di essere il miglior nonno del mondo.

Io osservo tutto con sano scetticismo.

Quando è nato il nipotino, la storia si è ripetuta. Le prime settimane Giovanni si è impegnato, cullava il piccolo e scattava foto. Ma lentusiasmo è svanito appena la fase iniziale è finita. Ha chiesto ai giovani di trasferirsi in un appartamento in affitto, limitando il suo aiuto a visite programmate nei fine settimana, quando il bambino era già sveglio e ben nutrito. Ogni volta che il piccolo piangeva, Giovanni trovava una scusa: una chiamata di lavoro, una riunione urgente, la moglie e la sua casa di campagna.

Io sono tornata a fare da braccio destro, guardando la scena, mio figlio e la sua compagna esauste, e ho capito di aver preso la decisione giusta. Stefano è diventato un uomo sensibile e responsabile, non ha lasciato la moglie sola. Giovanni è rimasto quelluomo che ama lidea di essere padre, ma non la sua essenza.

Ora, mentre scrivo queste righe, sento ancora il rumore del treno che parte, ma anche il battito del mio cuore che, nonostante tutto, continua a sperare che lamore vero quello che si costruisce giorno per giorno, con fatica e pazienza trovi sempre la sua strada.

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