Altro che moglie: a te servirebbe una colf!

Non ti servirebbe una moglie, ma una governante

Mamma, Gaia ha di nuovo rosicchiato la mia matita colorata!

Martina piombò in cucina sventolando il mozzicone di una matita, seguita a ruota da una labrador colpevole, la coda che sembrava un elicottero. Io mi staccai dai fornelli, dove il minestrone bolliva e le polpette sfrigolavano stizzite nella padella. Era già la terza matita che perdevo oggi.

Butta via quella rotta e prendi una nuova dal cassetto. Lorenzo, hai fatto i compiti di matematica?
Quasi! arrivò leco dalla cameretta.

Quel quasi di mio figlio di dodici anni significava solo una cosa: smartphone in mano e quaderni ancora chiusi sulla scrivania. Lo sapevo bene, ma dovevo anche scolare la pasta, girare il minestrone, inseguire il piccolo Tommaso che andava dritto verso la ciotola della cane e, in tutto questo, cercare di non dimenticare la lavatrice che già suonava in bagno.

…Trentadue anni. Tre figli. Un marito. Una suocera. Una labrador di nome Gaia. E io unico motore funzionante di questa casa.

Mi capitava di ammalarmi di rado. Non per qualche incredibile forza fisica, ma perché semplicemente non potevo permettermelo. Chi avrebbe nutrito tutti e sistemato ognuno? Chi avrebbe portato fuori Gaia? Chi avrebbe svegliato e vestito i bambini per andare a scuola e allasilo? La risposta era sempre una sola: nessuno.

Claudia, è quasi pronto per cena?

La signora Adalgisa si affacciò nella porta della cucina, appoggiandosi al bastone. Ottantacinque anni, mente sveglia, appetito intatto.

In cinque anni di convivenza, contavo sulle dite di una mano le volte che la suocera aveva fatto qualcosa di veramente utile in casa.

Tra dieci minuti, signora Adalgisa.

Si ritirò soddisfatta in salotto, strascicando le pantofole. Raramente leggeva qualche fiaba al piccolo Tommaso: Cappuccetto Rosso o La Befana vien di notte, sempre le stesse, ma il bambino le ascoltava incantato. Il resto del tempo restava in camera, guardava fiction alla TV e aspettava il prossimo pasto.

…Le lancette segnavano le sei meno mezza quando sentii girare la chiave nella porta. Matteo entrò con laria di chi ha corso la maratona.

È pronto da mangiare?

Neanche un ciao. Io indicai silenziosamente la tavola già apparecchiata. Lui passò in bagno, si lavò le mani, sedette al suo posto. La televisione si accese da sola il telecomando sembrava ormai un’estensione della sua mano.

Oggi Martina ha preso dieci in lettura, provai a dire.
Ah…
Lorenzo ha bisogno di aiuto per il progetto di scienze.
Eh.

Eh era il massimo che potevo aspettarmi. Finita la cena Matteo si accasciava sul divano. Il suo dovere era compiuto: aveva portato via lo stipendio il resto non lo riguardava.

Più tardi, quando i bambini dormivano, accendevo il portatile. Lavoro da remoto per un negozio online ordini, risposte ai clienti, spedizioni da organizzare. Non erano gran soldi, ma erano i miei. In più, cera laffitto dellappartamento che avevo messo a disposizione da anni.

Dovrei davvero trasferirmi, mi ripetevo, ma subentravano le solite scuse: Lorenzo aveva trovato una buona scuola, Martina si era affezionata allasilo, e poi avrei perso lentrata dellaffitto… Chiudevo il portatile, rimandando tutto a domani.

Dicembre portò il Natale e linfluenza insieme. Febbre a trentanove in poche ore. Mi sentivo spezzata, la gola in fiamme, la testa pesantissima. A malapena arrivai a letto.

Mamma, stai male, si affacciò Lorenzo.

Matteo mi seguì e sul volto leggevo una preoccupazione. Ma non verso di me.

Mi raccomando, non contagiare mamma Adalgisa. Alla sua età, meglio non rischiare.

Chiusi gli occhi. Ovviamente. Adalgisa prima di tutti.

I tre giorni successivi furono una sequenza confusa di febbre, sudore, sete e lenzuola bagnate. In quei giorni né marito, né suocera, né figli mi portarono un bicchiere dacqua. Il bollitore era in cucina, dieci passi dal letto ma ognuno di quei passi dovevo farlo da sola, attaccandomi ai muri.

Preoccupati tutti per la nonna. Non passare di là, che la mamma è malata. Mettiti la mascherina se devi andare vicino alla sua stanza. Meglio farla dormire in unaltra camera?

Io, proprio io diventata improvvisamente il soggetto meno desiderato della casa, quello da isolare per il bene dei veri familiari.

Dopo una settimana, il virus colpì tutti. Prima Tommaso, naso che gocciolava, piangeva sempre. Poi Martina. Poi Matteo, che si sdraiò a letto con trentasette e mezzo di febbre, lamentandosi molto. Lultima, la più teatrale, fu Adalgisa.

Io, ancora in convalescenza, mi alzai. Brodo di pollo, farmacia, termometro, spesa, bucato. Il solito giro, stavolta con le gambe di cartone.

Matteo, prendi Tommaso per un po. Devo andare a prendere le medicine.

Sbuffò, rotolò gli occhi, si rassegnò. Dopo unora in punto, avevo controllato lorologio mi restituì il bambino in camera.

Sono esausto. Ho la febbre anche io.

Aveva trentasei e otto. Io controllavo sempre.

La primavera non fu più clemente. Un nuovo virus, nuovi bambini malati, nuove notti insonni. Tommaso piangeva, Martina non voleva prendere le medicine, Adalgisa chiedeva piatti speciali. In mezzo a questo caos Matteo perfettamente sano.

Matteo, dai una mano coi bambini.
Claudia, lultima volta li ho tenuti io, ma almeno era domenica. Ora lavoro, sono sfinito.

Alzava le spalle. Quel gesto spiegava tutto. Ogni sera arrivava, si sedeva a tavola e aspettava la cena. Bambini malati, moglie sfinita, casa sottosopra non lo toccava.

Una sera, dopo che Tommaso si era finalmente addormentato e gli altri erano sopra i libri, mi avvicinai a lui. Il televisore gracchiava una partita di calcio.

Perché non mi aiuti? Perché proprio mai?

Non si voltò. Non rispose. Alzò solo il volume.
Rimasi dietro le sue spalle ancora un minuto, osservandolo. Tutto era allimprovviso chiaro, più di mille parole.

Il giorno dopo tirai giù dalla mensola le valigie grandi. Vestiti dei bambini, giocattoli, documenti. Lorenzo spalancò la porta:

Mamma, partiamo?
Andiamo dalla nonna Rosa.
Per quanto?
Vedremo.

Martina saltellava di gioia la nonna Rosa le faceva sempre i biscotti preferiti. Tommaso non capiva, ma trascinava il coniglietto di peluche.

Allultimo ricordai Gaia. Venne via con noi.

Matteo era piazzato sul divano. Borse, vestiti, figli col cappotto niente lo distolse dalla TV. Quando la porta si chiuse alle nostre spalle, avrà cambiato canale

Rosa mi accolse senza domande. Da mangiare pronto, un abbraccio sincero. Cinquantotto anni, maestra con trentanni di esperienza capiva senza che dovessi spiegare.

Resta quanto vuoi.

Al terzo giorno, cominciò a squillare il telefono. Matteo.

Claudia, torna a casa. Qui è un casino. Non cè niente da mangiare. La nonna si lamenta ogni minuto.

Nessun mi manchi. Nessun non sto bene senza di voi. Solo il disagio della routine.

Matteo, a te non serve una moglie, ma una donna delle pulizie.
Cosa? Ma dai

Hai mai detto che ti mancano i bambini?

Silenzio. Lungo, pesante.

Ma io porto i soldi a casa, disse infine lui. Che vuoi di più?

Riagganciai. Era davvero finita. E, contro ogni previsione, sentii un sollievo.

Dopo due settimane, gli inquilini lasciarono il mio appartamento. Il trasloco durò un giorno. Scuola nuova per Lorenzo, asilo nuovo per Martina tutte cose molto più semplici di come le avevo immaginate.

…Lultima telefonata tra noi fu lo sfogo finale. Tutti i torti mai detti, ogni parola inghiottita, ogni notte sola tra febbri e coperte tutto esplose senza filtro.

Sono stata la serva gratis per dodici anni! urlai al telefono. E tu mai, mai una volta mi hai chiesto come stai?, sei felice?, come vivi tu?. Basta. Mi basta davvero!

Bloccai il numero. Il giorno dopo chiesi il divorzio.

Ludienza durò venti minuti. Matteo non fece storie. Firmò i documenti per il mantenimento, salutò il giudice e uscì. Forse aveva capito. Forse aveva solo finito la pazienza.

…Quella sera, ero nella cucina della mia nuova-vecchia casa. Lorenzo leggeva nella sua stanza. Martina disegnava tutta impegnata, la lingua tra i denti. Tommaso giocava coi mattoncini sul tappeto.

Silenzio. Pace. Gaia sdraiata ai miei piedi, il muso tra le zampe.

Dovevo ancora cucinare, pulire, lavorare dopo cena. Ma stavolta per la mia vera famiglia, per chi conta davvero. E mi sarei dedicata a loro con più cura, per crescerli diversi da loro padre.

Mamma, Martina alzò il viso dal foglio. Ora sorridi molto di più.

Sorrisi di nuovo. Martina aveva proprio ragione.

La lezione che ho imparato? Nessun dovere familiare vale la propria dignità e la propria felicità. Ora posso davvero insegnarlo ai miei figli.

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