Mi sono innamorata del vicino. Mio figlio non vuole avere niente a che fare con me.

Mi sono innamorata del vicino. Mio figlio non vuole più dirmi mamma.

Che fai, mamma? Sei impazzita? gridò il ragazzo, con la faccia rossa come un pomodoro. Tu con il vicino? Con quelluomo strano che abita dietro il cancello?

Ero in cucina, con ancora una strofinaccio in mano. Non mi aspettavo una reazione così. Gli dissi solo che frequentavo il signor Alessandro. Che da mesi ci scambiamo parole, che ci sentiamo bene insieme. Che credo di essermi innamorata.

Papà non è neanche tre anni nella tomba! urlò il mio figlio. Come puoi?

Mi venne nausea. Volevo sedermi, ma lui già correva verso la porta.

Non chiamarmi più. Non voglio più vederti scagliò, sbattendo la porta così forte che i vetri tremarono.

Poi calò il silenzio.

Rimasi da sola, e non era la solita solitudine familiare a cui mi ero abituata negli anni. Era un vuoto dentro di me, lassenza delluomo che avevo dato alla luce, cresciuto e amato con tutto il cuore.

Non ho fatto nulla di sbagliato vero? Non cercavo lamore. È arrivato da solo, timido, silenzioso, attraversando il recinto, tra tazze di tè, risate in giardino. E ora il mio stesso figlio dice che non sono più sua madre.

Ho davvero il diritto alla felicità?

Quella notte non ho chiuso locchio. Giacevo a fissare il soffitto, e nella mia testa rimbombava ancora la sua voce: Non voglio più vederti. Quelle parole hanno ferito più di qualsiasi altra cosa. Nemmeno il funerale di mio marito mi aveva spezzata così. Quella perdita era tragica, ma naturale. Questa è stata come una lacerazione dellanima con il proprio figlio.

Alessandro mi mandò un messaggio al mattino: Ti penso, sono qui se vuoi parlare. Non risposi. Il senso di colpa mi attanagliava, non verso di lui, ma verso il figlio. Sentivo di aver compiuto qualcosa di irreparabile.

Il giorno intero giravo per casa come un fantasma. Foto di famiglia sul comodino, tazze con la scritta la migliore nonna, disegni dei nipoti attaccati al frigo tutto mi ricordava che un tempo facevo parte di qualcosa di stabile: madre, nonna, moglie. Ora mi sentivo unegoista.

La sera arrivò la mia figlia, Francesca. Mi portò una torta e un succo di lampone, come sempre. Si sedette al tavolo e mi guardò negli occhi.

Ho sentito cosa è successo disse.

Annuii senza farne più.

E tu cosa ne pensi? chiesi sottovoce.

Alzò le spalle.

Onestamente? Non lo so. Papà era un uomo meraviglioso. È difficile immaginarti con qualcun altro. Però non sei più una ragazzina. Hai diritto a tenerezza, a vicinanza esitò. Solo capisci Luca. Lui è vivo solo nei ricordi.

Io vivo nel presente risposi. E mi sento molto sola.

Mi fissò a lungo, poi strinse delicatamente la mia mano.

Non so cosa dire, mamma, ma sono con te.

Quelle parole furono come un cerotto sulla ferita. Non curarono il dolore, ma mi diedero la forza di alzarmi il giorno dopo e andare in giardino, come al solito.

Alessandro era alla porta dingresso, con il suo sguardo un po imbranato e una thermos di tè in mano.

Posso stare un attimo? chiese.

Annuii. Si sedette accanto a me sulla panchina.

Scusa se è tutto uscito così fuori controllo disse a bassa voce. Non volevo crearti problemi.

Non è colpa tua risposi. È che forse non ho diritto a queste cose.

Alessandro mi guardò con gravità, una gravità che non avevo mai visto in lui prima.

Non parlare così. Hai diritto. Anchio ne ho. Per anni abbiamo fatto tutto come si deve. Forse ora è il momento di fare qualcosa a modo nostro.

Sentii un calore salire alla gola. Non risposi, ma non fuggii. Rimasi. Lasciai che il silenzio ci avvolgesse, un silenzio che non feriva ma accarezzava.

Passarono tre settimane. Luca non si fece più vivo. Non chiamò, non rispose ai messaggi. I nipoti erano in silenzio. Come se qualcuno avesse tagliato con forbici spesse tutta la mia vita. Eppure, giorno dopo giorno, imparai a respirare di nuovo.

Con Alessandro ci vedevamo quasi tutti i giorni. Niente di eccezionale un tè, una chiacchierata sulla panchina, qualche spesa insieme. Ma bastava così per sentirmi viva. Perché qualcuno mi vedeva, non più come madre, vedova o nonna, ma semplicemente come donna.

Un pomeriggio, tornando dal mercato di Bologna, vidi lauto di mio figlio parcheggiata sotto casa. Rimasi immobile. Per un attimo volsi le spalle, mi nascosi, fingi di non esserci. Ma poi mi fermai, aprii la porta e entrai.

Luca era seduto al tavolo, senza bambini.

Sono venuto a dirti che credo di aver esagerato disse senza guardarmi. Ma ancora non riesco ad accettarlo.

Mi sedetti di fronte a lui.

Non mi aspetto che accetti. Solo che non mi rinneghi.

Stette zitto a lungo.

Sai quanto amavo papà.

Lo so. Anchio lo amavo. Ma è andato via. Io resto qui. E non voglio morire ancora in vita.

Alla fine mi guardò. Nei suoi occhi cerano rabbia, dolore e forse un barlume di comprensione.

Sarà difficile per me.

Anche per me risposi. Ma non smetterò di amarti solo perché non sei daccordo con me.

Luca si alzò, si avvicinò e mi abbracciò brevemente. Nientaltro disse, ma quel gesto fu già un inizio.

Ancora oggi non so se ho preso la decisione giusta. Però ho capito una cosa: lamore non si presenta quando è comodo per gli altri. Quando arriva, bisogna accoglierlo, anche se significa che qualcuno ti voltarà le spalle. Anche se fa male. Perché solo così si può ritrovare, davvero, il gusto di vivere.

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