A 55 anni ho capito che la cosa più spaventosa è sentirsi invisibili tra la folla.

Solo a cinquantacinque anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di persone per cui non conti nulla.

“Hai comprato di nuovo il pane sbagliato,” disse la voce tagliente di mia nuora Francesca mentre svuotavo le buste della spesa in cucina. “Ti avevo chiesto quello senza lievito. È la quinta volta che te lo dico.”

Prese il filone con due dita, come se fosse un insetto velenoso, e lo rigirò con disgusto.

“Francesca, mi sono dimenticata, scusami. Ero di fretta.”

“Sei sempre di fretta, Anna Maria. Poi tocca a noi mangiare questa roba. Potrebbe far male a Matteo.”

Appoggiò il pane sul tavolo con unaria di superiorità, come se mi avesse fatto un favore a non gettarlo direttamente nel cestino.

Ingoiai un nodo amaro che mi saliva in gola. Mio nipote Matteo aveva sei anni e non aveva mai avuto allergie al pane normale in vita sua.

Mio figlio Luca fece capolino dalla porta.

“Mamma, hai visto il mio maglione blu?”

“Sì, Luca. È in lavatrice, ieri lho”

“Perché?” mi interruppe. “Dovevo metterlo oggi! Davvero, mamma!”

Se ne andò lasciandomi quel “davvero, mamma!” che ultimamente mi feriva più di uno schiaffo. Avevo lavato i suoi vestiti. Mi ero occupata di lui. Eppure, ancora una volta, ero colpevole.

Camminai lentamente verso la mia stanza, attraversando il soggiorno dove Francesca stava già al telefono, ridacchiando con unamica mentre diceva: “La suocera ha ricominciato con le sue stranezze.” La risata dallaltra parte era altrettanto tagliente delle sue parole.

La mia camera sembrava lunico posto sicuro in quella casa un tempo accogliente, ora ronzante come un alveare.

Voci continue, strilli di bambini, la televisione sempre accesa, porte che sbattevano. Rumore. Gente. Eppure, una solitudine da far impazzire.

Mi sedetti sul letto. Per tutta la vita avevo avuto paura di restare sola. Paura che i figli crescessero e se ne andassero, lasciandomi in stanze vuote. Che stupida ero stata.

Solo a cinquantacinque anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di persone per cui non sei nessuno.

Sei un accessorio gratuito. Una funzione che non funziona mai bene. Porta, prendi, lavama solo come dicono loro. Un passo a destra, uno a sinistra, e già sei dintralcio, fastidiosa, ingombrante.

Quella sera ci riprovai. Luca era chino sul computer, imbronciato.

“Luca, possiamo parlare?”

“Mamma, non vedi che sono occupato?” Non alzò nemmeno gli occhi dallo schermo.

“Volevo solo”

“Più tardi, va bene?”

Ma quel “più tardi” non arrivò mai. Lui e Francesca avevano la loro vita, i loro piani, le loro conversazioni. Io ero lo sfondo. Come un vecchio divano o una lampada ormai fuori moda. Presente, ma invisibile.

Bussarono alla porta. Era Matteo.

“Nonna, leggi questa,” mi porse un libro.

Il mio cuore palpito di gioia. Eccolo, il mio raggio di sole. Lunico che ancora

“Matteo!” comparve allimprovviso Francesca sulla soglia. “Ti ho detto di non disturbare la nonna! Vieni, è ora del tablet.”

Mi strappò il libro di mano e lo portò via.

Rimasi seduta a fissare la porta chiusa. E in quel momento capii: non potevo più essere solo uno sfondo. Qualcosa doveva cambiare. Altrimenti, mi sarei dissolta tra le pareti di quella casa, come unombra.

La decisione non arrivò subito. Maturai dentro di me per giorni, mentre lavavo i piatti meccanicamente, facevo la spesa e ingoiavo in silenzio ogni piccola umiliazione.

Si consolidò definitivamente quando vidi nella spazzatura una pentola quasi piena del mio risotto”troppo grasso, siamo a dieta.”

Decisi di iniziare dal piccolo. Dal mio spazio.

Sabato mattina, mentre tutti dormivano, presi dalle mensole le scatole con le cose di mio marito defunto. I suoi libri, gli attrezzi, le vecchie foto. Le disposi tutte in salotto, sul tavolo grande. Volevo creare un angolo della memoria, appendere il suo ritratto.

Francesca fu la prima a scendere. Si fermò sulla porta come avesse visto un topo.

“Che diavolo è tutto questo?”

“Buongiorno, Francesca. Sto sistemando alcune cose.”

“Lo vedo. Non potevi farlo nella tua stanza? Hai riempito il salotto. Oggi abbiamo ospiti, tra laltro.”

“Anche questo è il mio salotto,” risposi con calma, ma ferma. Mi sorprese quanto sicura suonasse la mia voce. “E queste sono le cose di tuo suocero. Il padre di Luca.”

Francesca sbuffò e si diresse in cucina, sbattendo la caffettiera. Dieci minuti dopo arrivò Luca, attratto dallodore del caffè e dalla mia “rivoluzione.”

“Mamma, che casino è questo? Francesca dice che hai riempito tutto.”

“Volevo solo appendere il ritratto di tuo padre. Qui,” indicai il muro.

“Qui?” Guardò prima il muro, poi me. “Hai perso la testa? Abbiamo un arredamento moderno. Che ritratto? Francesca aveva già scelto uno specchio di design.”

Ecco. Uno specchio. Alla moda. Più importante della memoria di suo padre.

“Luca, questa è casa mia.”

“Oh, eccoci,” alzò gli occhi al cielo. “Ecco il tuo solito casa mia. Anche noi viviamo qui! E abbiamo fatto i lavori!”

“Lavori”una mano di vernice verde acqua in cucina, tutto qui.

“Per questo voglio che resti una casa, non un passaggio con specchi alla moda.”

Quella sera vennero insieme. Volti seri, tesi. Si sedettero di fronte a me.

“Mamma, abbiamo pensato,” iniziò Luca con voce dolce. “Questa casa è troppo grande per noi tutti. Le bollette sono alte, pulire è faticoso.”

Francesca riprese, fissandomi:

“Sì, Anna Maria. Ci preoccupiamo per te. Sarà dura per te restare sola quando noi e Luca ce ne andremo.”

Un brivido mi corse lungo la schiena.

“Dove pensate di andare?”

“Vogliamo vendere la casa,” disse Luca. “Compreremo un appartamento nuovo per noi. E per te un monolocale. Piccolo, accogliente. Ma tutto tuo.”

Li guardai alternativamente. Non scherzavano. Avevano già deciso. Già immaginavano i soldi della vendita della mia casa. La mia fortezza. La mia vita.

“Vendere casa mia?”

“Perché dici tua?” rise sfacciata Francesca. “Anche noi viviamo qui, abbiamo speso soldi. Vuoi che lavoriamo tutta la vita per mantenere questo rudere?”

Mi alzai. Le gambe tremavano, ma mi tenni dritta.

“No.”

“Che vuoi dire no?” Luca era confuso. “Mamma, è vantaggioso per tutti.”

“Ho detto no. Questa casa non si vende. Mai.”

Guardai mio figlio negli occhi. Non cera altro che irritazione e freddo calcolo. La maschera della famiglia perfetta era caduta. Non ero solo di troppo.

Ero un ostacolo per il loro “futuro felice.” E loro erano pronti a spazzarmi via. A qualunque costo.

Il mio “no” rimase sospeso nellaria. Il volto di Luca divenne rosso. Francesca, al contrario, impallidì, le labbra

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