Ho 67 anni, vivo da sola e chiedo ai miei figli di portarmi a vivere con loro, ma loro rifiutano. Non so come andare avanti.
Gisella sedeva nel suo piccolo appartamento a Livorno, fissando la vecchia televisione che ronzava in un angolo, incapace di coprire il silenzio che riempiva la casa. Le sue mani, segnate dalle rughe, tremavano stringendo il telefono, dove non c’erano nuovi messaggi. Aveva appena chiamato suo figlio, Massimo, e sua figlia, Lucia, con la stessa richiesta: “Portatemi con voi, non ce la faccio più da sola.” Ma le loro risposte, seppur educate, le trafiggevano il cuore: “Mamma, non abbiamo spazio”, “Mamma, non è il momento giusto.” Gisella posò il telefono e scoppiò in lacrime, sentendo la solitudine stringerla in un abbraccio gelido. A 67 anni, non sapeva come sopravvivere.
La sua vita era stata piena di sacrifici. Gisella aveva cresciuto Massimo e Lucia da sola, dopo che il loro padre era morto d’infarto quando loro avevano dieci e otto anni. Aveva lavorato come sarta, passando notti intere alla macchina da cucire per assicurarsi che avessero giacche pesanti e quaderni per la scuola. Rinunciava a tutto—vestiti nuovi, vacanze al mare, anche al semplice riposo—pur di non far mancare nulla ai suoi figli. Massimo era diventato avvocato, Lucia insegnante, e lei ne era orgogliosa, come se i loro successi fossero anche i suoi. Ma ora, con le forze che la abbandonavano e la salute sempre più fragile, si sentiva inutile.
Gisella non voleva essere un peso. Cercava di farcela da sola: preparava minestre semplici, andava a fare la spesa nonostante il dolore alle ginocchia, puliva la casa anche se le mani le obbedivano a malapena. Ma ogni giorno era una battaglia. Le scale fino al terzo piano sembravano una montagna, le borse della spesa pesavano come macigni, e le notti non finivano mai. Aveva paura di cadere, di ammalarsi, di rimanere a terra senza che nessuno la sentisse chiamare. Sognava di vivere con i figli, vedere i nipoti, sentirsi ancora parte di una famiglia. Ma ogni sua richiesta veniva respinta, e ogni “no” era la conferma che la sua vita non contava più.
Massimo viveva a Firenze con la moglie e i due figli. Quando Gisella chiamava, lui rispondeva: “Mamma, siamo stretti, i bambini fanno casino, non starai bene qui.” Sentiva l’irritazione nella sua voce e capiva: non voleva cambiare la sua vita per lei. Lucia, a Pisa, era più dolce, ma le sue parole facevano male lo stesso: “Mamma, ci pensiamo, ma ora è difficile, lavoro tutto il giorno.” Gisella immaginava i figli parlarle alle spalle, chiamarla “problema”, e il cuore le si spezzava. Non chiedeva il lusso—solo un angolino in cui poter essere vicina, dove la sua voce fosse ascoltata. Ma anche quello era troppo.
Un giorno, dopo un altro rifiuto, Gisella si sedette a scrivere una lettera. Voleva metterci tutta la sua sofferenza, ma scrisse solo: “Vi amo, ma ho paura. Se non avete bisogno di me, ditemelo chiaramente.” La spedì a Massimo e Lucia, ma non arrivò mai una risposta. Il silenzio fu peggio di qualsiasi parola. Gisella guardava le foto dei figli appese al muro e si chiedeva: “Dove ho sbagliato? Perché mi hanno voltato le spalle?” Ricordava le loro carezze, le ninne nanne, tutto ciò che aveva sacrificato, e non capiva come il suo amore l’avesse portata a tanto dolore.
I vicini cercavano di aiutarla. La signora Anna del pianterreno le portava torte salate, il ragazzo del quarto piano l’aiutava con le borse della spesa. Ma la loro gentilezza rendeva ancora più evidente il vuoto: era gente estranea a prendersi cura di lei, non i suoi figli. Gisella cominciò a frequentare il circolo per anziani, dove cantava nel coro e imparava a fare la maglia. Lì sorrideva, scherzava, ma appena tornava a casa, il silenzio la assaliva di nuovo. I nipoti, che vedeva una volta all’anno, crescevano senza di lei, e questo pensiero la feriva. Sognava di preparare loro la pasta fresca, di raccontare fiabe, ma invece restava sola a contare i giorni.
Ora Gisella cerca un senso in ogni giornata. Si è iscritta a un corso d’informatica per imparare a fare videochiamate—magari i nipoti vorranno vederla. Coltiva fiori sul davanzale, sperando che i colori allevino la tristezza. Ma di notte, quando il sonno non arriva, piange e si domanda: “Perché proprio a me?” Spera ancora che Massimo o Lucia cambino idea, che la chiamino per dirle: “Mamma, vieni da noi.” Ma giorno dopo giorno, la speranza si affievolisce. Gisella non sa quanto le resta, ma non vuole passare questi anni nell’isolamento, bensì nel calore di una famiglia. E finché i suoi figli tacciono, impara ad amare se stessa—per la prima volta in 67 anni.