A settant’anni ho capito che il vero orrore non è una casa vuota, ma un pieno di persone di cui non hai bisogno.

A settant’anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di gente per cui non conti nulla.

“Hai comprato ancora il pane sbagliato,” la voce di mia nuora Simona mi trafisse le orecchie mentre svuotavo le buste della spesa in cucina. “Te l’ho detto mille volte, senza lievito!” Prese il filone con due dita, come se fosse uno scarafaggio velenoso.

“Simò, scusami, ho dimenticato. Ero di corsa.”

“Sei sempre di corsa, Anna. Poi tocca a noi mangiare questa roba. Matteo potrebbe avere un’allergia!” Scagliò il pane sul tavolo con l’aria di chi ti fa un favore a non buttarlo direttamente nel secchio.

Deglutii il nodo in gola. Mio nipote Matteo aveva sei anni e non aveva mai avuto allergie al pane normale.

Mio figlio sbucò in cucina. “Mamma, hai visto il mio maglione blu?”

“Sì, Marco. È in lavatrice, ieri l’ho—”

“Perché?!” Non mi lasciò finire. “Dovevo metterlo oggi! Dai, mamma!”

Sparì, lasciandomi quel “dai, mamma!” che ormai mi bruciava più di uno schiaffo. Avevo lavato i suoi vestiti. Mi ero occupata di lui. E ancora una volta, avevo sbagliato.

Camminai lentamente verso la mia camera, passando davanti al salotto dove Simona stava già al telefono a raccontare all’amica che “la suocera sta impazzendo di nuovo.” Le risate dall’altra parte erano taglienti come le sue parole.

La mia stanza era l’unico posto sicuro in quella casa una volta accogliente, ora ronzante come un alveare. Voci, urla di bambini, TV a tutto volume, porte che sbattevano. Rumore. Gente. E una solitudine che ti toglie il respiro.

Mi sedetti sul letto. Per tutta la vita avevo temuto di rimanere sola. Temevo che i figli se ne sarebbero andati e io sarei rimasta in stanze vuote. Che sciocca che ero stata.

Solo a sessant’anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di persone per cui sei invisibile.

Sei un’appendice gratuita. Una funzione difettosa. Porta, prendi, lava, ma solo come dicono loro. Un passo a sinistra, uno a destra, e sei già di troppo, fastidiosa, ingombrante.

Quella sera ci riprovai. Marco era inchiodato al laptop, accigliato.

“Marco, possiamo parlare?”

“Mamma, non vedi che lavoro?!” Non alzò gli occhi dallo schermo.

“Volevo solo—”

“Dopo, okay?”

Ma il “dopo” non arrivava mai. Lui e Simona avevano la loro vita, i loro piani, le loro conversazioni. Io ero… lo sfondo. Come un divano vecchio o una lampada fuori moda. C’ero, eppure non c’ero.

Bussarono alla porta. Era Matteo.

“Nonna, leggimi?” Mi porse un libro.

Il cuore mi balzò in petto. Eccolo, il mio raggio di sole. L’unico che ancora—

“Matteo!” Simona apparve sulla soglia. “Non ti ho detto di non disturbare la nonna? Vieni, è ora del tablet.” Gli strappò il libro e lo trascinò via.

Rimasi lì, a fissare la porta chiusa. E in quel momento capii che non potevo più essere solo uno sfondo. Qualcosa doveva cambiare. O sarei svanita tra queste mura, un fantasma.

La decisione maturò lentamente. Mentre lavavo i piatti meccanicamente, facevo la spesa e sopportavo in silenzio i loro pizzichi. Si consolidò quando trovai nella spazzatura una pentola quasi piena del mio risotto — “troppo grasso, siamo a dieta.”

Decisi di iniziare dal mio spazio.

Sabato mattina, mentre ancora dormivano, presi dalle scatole in soffitta gli oggetti di mio marito defunto. Libri, attrezzi, vecchie foto. Iniziai a sistemarli in salotto, sul tavolo grande. Volevo creare un angolo della memoria, appendere il suo ritratto.

Simona fu la prima a scendere. Si bloccò sulla soglia, come avesse visto un topo.

“Ma che diavolo è?!”

“Buongiorno, Simona. Sto sistemando alcune cose.”

“Vedo. Non potevi farlo nella tua stanza? Hai riempito il salotto! Oggi arrivano gli ospiti, sai?”

“È anche il mio salotto,” dissi piano ma ferma, sorpresa dal mio stesso tono. “E queste sono le cose di tuo suocero. Il padre di Marco.”

Simona sbuffò e si dileguò in cucina, sbattendo la caffettiera. Dieci minuti dopo arrivò Marco, attirato dall’odore del caffè e dalla rivolta materna.

“Mamma, ma che fai? Simona dice che hai invaso il salotto.”

“Volevo appendere il ritratto di tuo padre. Qui.” Indicai il muro.

“Qui?!” Guardò il muro, poi me. “Sei impazzita? Abbiamo un design moderno, che ci fa un ritratto? Simona voleva metterci uno specchio trendy.”

Ecco. Uno specchio. Alla moda. Più importante della memoria di suo padre.

“Marco, questa è casa mia.”

“Eccoci,” alzò gli occhi al cielo. “Sempre con sta storia! Qui viviamo noi, abbiamo fatto i lavori!”

I “lavori” consistevano in una parete della cucina dipinta di un verde acido. Tutto qui.

“Per questo voglio che sia una casa, non un salone arredato con specchi trendy.”

La sera arrivò il discorso serio. Si presentarono insieme, facce da funerale. Si sedettero.

“Mamma, abbiamo pensato,” iniziò Marco, mellifluo. “Questa casa è troppo grande per noi. Le bollette salate, pulire è un incubo.”

Simona riprese, occhi limpidi: “Ci preoccupiamo per lei, Anna. Sarà dura per lei quando decideremo di vivere da soli.”

Un brivido mi corse lungo la schiena.

“Dove volete andare?”

“Vendere la casa,” sbottò Marco. “Compriamo un appartamento nuovo per noi. E per lei un monolocale. Piccolo, accogliente. Ma tutto suo.”

Li guardai alternandoli. Non scherzavano. Avevano già deciso. Nella loro testa, i soldi della vendita erano già spartiti. La mia roccaforte. La mia vita.

“Vendere… casa mia?”

“Perché tua?!” Simona sorrise sfacciata. “Anche noi ci viviamo, ci investiamo. O vuoi che ti manteniamo per sempre in questa villa?”

Mi alzai. Le gambe tremavano, ma mi tirai su.

“No.”

“Come ‘no’?” Marco aggrottò la fronte. “Mamma, è vantaggioso per tutti.”

“Ho detto no. Questa casa non si vende. Mai.”

Guardai mio figlio dritto negli occhi. C’erano solo fastidio e calcolo. La maschera della famiglia amorevole era caduta. Non ero solo d’intralcio.

Ero un ostacolo al loro “futuro radioso.” E volevano rimuovermi. A tutti i costi.

Il mio “no” rimase sospeso. Marco arrossì. Simona impallidì, le labbra sottili una linea.

“Non hai capito,” sibilò lui. “Non è una richiesta. Abbiamo già chiamato l’agenzia.”

“Cancellala,” risposi calma. Dentro tremavo, ma sapevo: un passo indietro e mi avrebbero divorato.

“Vivrai nel tuo monolocale e sarai contenta!” strillò Simona. “Basta rovinarci la vita con i tuoi capricci!”

“Simona,” la redarguì Marco, poi a me:E quando la porta si chiuse alle loro spalle, finalmente, la casa respirò con me, libera e leggera, pronta a riempirsi delle uniche cose che contavano davvero: i miei ricordi, il mio silenzio, la mia pace.

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