A settant’anni ho capito che la solitudine non è viver da soli, ma essere circondati da chi non ti vuole.

A settant’anni ho capito che la cosa più terribile non è una casa vuota, ma una piena di persone a cui non servi più.

“Hai comprato ancora il pane sbagliato,” disse la voce tagliente di mia nuora Francesca mentre scompattavo le borse sul tavolo della cucina. “Ti avevo chiesto quello senza lievito. È la quinta volta che te lo dico.” Prese la pagnotta con aria di disgusto, come se fosse un insetto velenoso.

“Francy, mi è scappato, scusami. Ero distratta.”

“Sei sempre distratta, Anna. Poi tocca a noi mangiarlo. Matteo potrebbe avere un’allergia.” Deposito il pane con un gesto teatrale, come se mi stesse facendo un favore a non buttarlo via.

Deglutii a fatica. Mio nipote Matteo aveva cinque anni e non aveva mai avuto allergie al pane normale.

Mio figlio Luca sbucò dalla stanza. “Mamma, hai visto il mio maglione blu?”

“Sì, Luchino. È in lavatrice, ieri l’ho—”

“Perché?!” Mi interruppe. “Volevo indossarlo oggi! Dai, mamma!” Se ne andò senza ascoltarmi, lasciandomi con quel “dai, mamma” che ormai era peggio di uno schiaffo. Avevo lavato i suoi vestiti, mi ero presa cura di lui, eppure ero sempre quella che sbagliava.

Raggiunsi lentamente la mia stanza, passando davanti al salotto dove Francesca stava già al telefono con un’amica, dicendo che “la suocera è di nuovo fuori di testa.” La risata dall’altro capo era altrettanto tagliente.

La mia camera era l’unico posto sicuro in quella casa che un tempo era accogliente. Ora ronzava come un alveare, piena di voci, urla, televisore acceso, porte sbattute. Eppure, nonostante tutto quel rumore, ero più sola che mai.

Mi sedetti sul letto. Per tutta la vita avevo avuto paura di ritrovarmi sola, di restare in stanze vuote quando i miei figli se ne sarebbero andati. Che sciocca ero stata.

A sessant’anni ho capito che la cosa più terribile non è una casa vuota, ma una piena di persone che non hanno più bisogno di te.

Sei un’appendice, una funzione difettosa. “Prendi, porta, lava, ma fallo come diciamo io.” Un passo fuori posto e sei di troppo.

Quella sera, provai ancora una volta. Luca era al computer, teso.

“Luchino, parliamo un attimo?”

“Mamma, non vedi che lavoro?” Non alzò nemmeno gli occhi dallo schermo.

“Volevo solo—”

“Dopo, va bene?”

Il “dopo” non arrivava mai. Loro avevano la loro vita, i loro programmi. Io ero lo sfondo, come un vecchio divano o una lampada stinta.

Qualcuno bussò. Era Matteo.

“Nonna, leggimi.” Mi porse un libro.

Il cuore mi balzò. Finalmente, il mio raggio di sole. L’unico che ancora—

“Matteo!” comparve Francesca. “Ti ho detto di non disturbare la nonna! Vieni, è ora del tablet.” Gli strappò il libro e se lo portò via.

Rimasi a fissare la porta chiusa. In quel momento, capii che non potevo più essere solo uno sfondo.

La decisione maturò lentamente, mentre lavavo i piatti in silenzio, facevo la spesa, sopportavo le loro frecciate. Si consolidò quando trovai nella spazzatura una pentola intera del mio risotto — “troppo grasso, siamo a dieta.”

Decisi di iniziare dal piccolo: dal mio spazio.

Il sabato mattina, mentre tutti dormivano, tirai giù le scatole con le cose di mio marito. Foto, libri, attrezzi da lavoro. Cominciai a sistemarli in salotto, sul tavolo centrale. Volevo creare un angolo per lui, appendere un suo ritratto.

La prima a scendere fu Francesca. Si bloccò sulla soglia.

“Che cos’è questa roba?”

“Buongiorno, Francy. Sto riordinando.”

“Lo vedo. Non potevi farlo in camera tua? Hai riempito il salotto. Oggi vengono ospiti!”

“È anche il mio salotto,” dissi con calma. “E queste sono le cose di tuo suocero. Il padre di Luca.”

Fece un verso di disgusto e se ne andò.

Dieci minuti dopo arrivò Luca, attirato dall’odore del caffè e dalla rivolta silenziosa.

“Mamma, cosa combini? Francesca dice che hai messo tutto sottosopra.”

“Voglio appendere il ritratto di tuo padre. Qui.” Indicai il muro.

“Qui? Sei impazzita? Abbiamo un arredamento moderno! Francesca vuole mettere uno specchio.”

Ecco la verità. Uno specchio. Alla moda. Più importante della memoria di suo padre.

“Luchino, questa è casa mia.”

“Eccoci, ricomincia con ‘casa mia’! Viviamo qui anche noi, abbiamo fatto i lavori!”

I “lavori” erano il muro della cucina dipinto di un verde acido.

“Per questo voglio che resti una casa, non un salone con specchi luminosi.”

La sera, il confronto definitivo. Vennero insieme, con facce serie e discorsi preparati.

“Mamma, abbiamo pensato,” esordì Luca. “Questa casa è troppo grande. Le bollette sono alte, è difficile da pulire.”

Francesca annuì. “Ci preoccupiamo per te, Anna. Sarà dura per te restare qui sola.”

Un brivido mi attraversò la schiena.

“Dove volete andare?”

“Vendiamo la casa,” sparò Luca. “Compriamo un appartamento nuovo per noi. E per te un monolocale. Piccolo, accogliente.”

Li guardai alternativamente. Non scherzavano. Avevano già deciso. Avevano già diviso i soldi di casa mia.

“Vendere… casa mia?”

“Perché solo tua?” rise Francesca. “Ci viviamo anche noi, no? O vuoi che ti serviamo a vita?”

Mi alzai. Le gambe tremavano, ma tenni duro.

“No.”

“Cosa ‘no’?” Luca parve confuso. “Mamma, è meglio per tutti!”

“Ho detto no. Questa casa non si vende.”

Lo guardai negli occhi. Non c’era altro che freddezza. La maschera della famiglia felice era caduta. Non ero solo un peso.

Ero un ostacolo.

Il silenzio fu pesante. Luca arrossì, Francesca impallidì.

“Non hai capito,” sibilò lui. “Non è una richiesta. Abbiamo già chiamato l’agenzia.”

“Annullala,” dissi ferma. Dentro tremavo, ma sapevo che se avessi ceduto, mi avrebbero divorato.

“Vivrai nel tuo monolocale e sarai felice!” urlò Francesca. “Smettila di rovinarci la vita con le tue fissazioni!”

“Mia figlia,” la riprese Luca, ma poi si rivolse a me. “Mamma, come fai a trattarci così? Al tuo unico figlio? Sto pensando alla famiglia! A tuo nipote!”

Era la mossa proibita. Ma non funzionò più.

“Mio nipote verrà a trovarmi in questa casa. Non in un anonimo appartamento comprato sulla memoria di suo nonno.”

“Ah, ecco!” sbottò Francesca. “Quindi per te non siamo niente? Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?”

La guardai e, per la prima volta da tempo, mi sentii padrona della mia casa.

“L’hai detto tu, Francy. Non io.”

I giorni successivi furono un inferno. Smisero di parlarmi, mi ignoravano con ostentazione. Cibo preparato solo per loro, porte sbattute in faccia. Cercavano di farmi crollare.

Ma si sbagliavano. Non avevo più paura del vuoto. Lo desideravo.

Il venerdì feci la mia mossa. Mentre guardavano la TVE quella sera, mentre riordinavo le foto di mio marito, finalmente sorrisi, perché avevo capito che la vera famiglia non è chi ti riempie la casa, ma chi ti riempie il cuore.

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A settant’anni ho capito che la solitudine non è viver da soli, ma essere circondati da chi non ti vuole.