Io e mia sorella non ci parliamo da più di vent’anni. E ora lei mi chiede di venire a vivere da me… Sono confusa.
Mi chiamo Alessia. Ho quarant’anni, una famiglia, due figli maschi, un marito meraviglioso, un bel appartamento a Firenze e una casetta in campagna dove andiamo ogni estate. Tutto sembrava andare per il meglio. Ma ora mi trovo davanti a una scelta che non mi dà pace. Perché riguarda mia sorella – una donna che non mi separa solo la distanza, ma anni di silenzio, rancore e dolore.
Quando avevo cinque anni, è morto nostro padre. Dieci anni dopo, anche nostra madre se n’è andata, per un cancro. Rimasi completamente sola. Mia sorella maggiore, Chiara, aveva ventitré anni ed era già adulta. Prima di morire, nostra madre la supplicò di non abbandonarmi. Chiara ottenne l’affidamento e restammo a vivere insieme nella casa dei nostri genitori. Ma chiamarla casa è difficile…
Ero un’adolescente ribelle – arrabbiata, sfacciata, persa. Chiara, invece, era severa, fredda, controllata. Non mi ha mai abbracciata, non mi ha mai detto una parola dolce. Non mi sgridava, mi guardava solo con indifferenza. Ricordo le notti passate a piangere nel cuscino, sognando solo di scappare da quella casa soffocante.
A diciassette anni, mi innamorai. Portai il mio ragazzo a casa, ma il marito di Chiara – si era sposata con Luca – lo cacciò in malo modo. Poi Chiara mi disse, tranquilla: “Se non ti piace, puoi andartene.” Feci le valigie e me ne andai. Nessuno mi fermò. Nessuno mi chiamò. Nessuno mi cercò.
Con Marco non durò molto – si rivelò diverso da come sembrava. Vivevamo nell’appartamento dei suoi genitori, tirando avanti a pane e acqua. Poi ci lasciammo. Tornare da mia sorella non volevo. Aspettava un figlio, e dopo tutto quello che era successo, sentivo che non c’era più posto per me lì.
Mi trasferii a Bologna, trovai lavoro come commessa, vivevo in un dormitorio. Era dura, avevo paura, ma mi aggrappavo a ogni possibilità. Poi incontrai Davide. Calmo, buono, affidabile. Ci sposammo. Nacquero i nostri due figli. Con il tempo, comprammo un appartamento con un mutuo, poi la macchina, e infine quella casetta in campagna, piccola ma accogliente, vicino a Siena.
Mia sorella? Non ne sapevo nulla da anni. Solo voci: lei e Luca stavano bene, lui aveva un’attività di successo, un grande appartamento, una vita agiata. Poi, all’improvviso, tutto crollò. Luca cominciò a bere, Chiara chiese il divorzio, vendettero l’appartamento e si divisero i soldi. Lei e sua figlia si trasferirono in un bilocale.
Non mi sono intromessa. Ognuno ha la sua vita, il suo destino. Ma qualche mese fa, un’amica comune mi ha scritto: la figlia di Chiara si è sposata. E… ha cacciato sua madre di casa. Semplicemente l’ha buttata fuori. Senza diritto di tornare.
E poi sono arrivate le chiamate. I messaggi. Le lettere. Chiara. Mia sorella, con cui non parlavo da vent’anni. “Perdonami…”, “Sono malata…”, “Non ho dove andare…”, “Lasciami stare almeno nella casetta in campagna…”. Leggo e non so cosa provare. Pietà? Rabbia? Dolore? O solo vuoto?
Mio marito dice: “Lasciala stare. Tanto noi andiamo solo d’estate. E poi è pur sempre famiglia.” Io taccio. Penso. Ricordo me stessa – diciassettenne, in piedi con la valigia davanti alla porta di casa, una casa a cui non importava se sarei sopravvissuta o sparita nel nulla.
Ho perdonato. Davvero. Senza rancore. Ma riaccoglierla significherebbe riaprire la porta a una persona che un tempo mi ha cancellata dalla sua vita. E se poi se ne andrà di nuovo? Se sparirà ancora? Non voglio prendermi il peso del destino di un’altra. Ma nemmeno lasciarla andare mi riesce.
Sono sulla soglia. E non so da che parte voltarmi. E il cuore mi fa più male che mai.