Aiutare qualcuno? Stai attento: il gesto di buona volontà si svaluta in fretta; dopo il primo aiuto tutti credono che per te sia un gioco da ragazzi.

Quando decidi di dare una mano a qualcuno, devi farlo con prudenza. Un gesto di buona volontà perde valore in fretta: il primo aiuto fa credere al beneficiario che per te sia un compito leggero, che tu abbia “un eccesso” di tempo, soldi e energie.

C’è però una trappola nascosta: quel supporto può trasformarsi presto in un peso. All’inizio ti ringraziano, ti chinano il capo con rispetto. Poi chiedono “per cortesia”. Poi incominciano a pretendere. E quando non puoi più o non vuoi più, ti trattano come se avessi tradito, come se avessi rubato, come se dovessi ancora una paga o un debito.

Nel loro modo di vedere le cose sei diventato “un benefattore”, quindi devono continuare a “fornire”. La tua gentilezza è stata inserita nel loro bilancio come “entrata programmata”. Contavano su di te! Ti sei iscritto al ruolo di salvatore e ora, se ti rifiuti, sei colpevole.

Un’altra dura verità è che talvolta il tuo aiuto suscita invidia. “Se lui può dare, allora ha un surplus. Perché a me resta solo una briciola?” Così il tuo sostegno non è più percepito come dono, ma come umiliazione.

Quando alla fine dici: “Scusa, non ce la faccio più”, non trovi comprensione, ma rimproveri e risentimenti. È capitato più volte: prima gratitudine sincera, poi richieste, poi pretese, infine rabbia e svalutazione di tutto ciò che hai fatto. L’aiuto trasforma rapidamente il collaboratore in “debitore”. Basta fermarsi un attimo e ti dipingono come il colpevole.

Perciò, prima di allungare la mano, rifletti: dopo la seconda o terza richiesta, chiediti se la tua bontà non si sta trasformando in “servizio a vita”. Spesso ci si aspetta non gratitudine, ma un obbligo senza fine. La fine di questa storia è sempre la stessa: il vecchio eroe diventa “traditore”.

Il bene fatto con sincerità, senza secondi fini, non ha debiti. O è apprezzato, o svanisce in un attimo, e allora non è più colpa tua.

Conosco una signora di Milano, Francesca, che aveva una amica d’infanzia, Giulia. Quando Giulia perse il lavoro, Francesca non esitò: le diede dei soldi, la presentò a conoscenti e, per qualche mese, la ospitò nella sua casa.

All’inizio Giulia ringraziava quasi ogni giorno. Poi si abituò. Poi cominciò a considerare quell’aiuto come una cosa dovuta. – “Sei l’unica che ho, mi salverai sempre, vero?” – ripeteva ogni volta che chiedeva ancora.

Francesca continuava a dare. Un giorno, però, disse: “Scusa, non riesco più. Anch’io sto attraversando un periodo difficile”. Giulia cambiò subito tono. – “Contavo su di te! Mi avevi promesso! Come può un vero amico fare così?” – la sua voce era piena di accusa.

Tutto quello che Francesca aveva fatto per anni svanì dalla memoria di Giulia, lasciando solo il rancore: “non mi hai aiutata quando ne avevo bisogno”. Il dolore più grande non fu per i soldi o il tempo sprecato, ma per il fatto che non c’era stata vera amicizia, solo l’abitudine di prendere.

Fu allora che Francesca capì la lezione fondamentale: l’aiuto vale solo quando è accompagnato da gratitudine. Se al posto della gratitudine arriva una pretensione, non è più sostegno, ma sfruttamento.

Da quel momento aiuta solo chi è disposto a tendere la mano a sua volta. Sa bene che il bene deve essere reciproco; altrimenti si trasforma in catene.

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