Al mattino nuotava nella luce grigia, la macchina del caffè scattò, il vapore saliva lentamente oltre la finestra.

L’alba si stendeva grigia sulla città, la macchina del caffè scattò, il vapore saliva lentamente sulla finestra.

Ero seduta in cucina, ad ascoltare il silenzio.

Tre giorni erano passati da quella serada quando le avevo consegnato la scatola nera.

Eppure, sembravano trascorsi anni.

Il mio telefono vibrava ogni ora.

Una volta aveva chiamato lei.

Poi il suo avvocato.

Infine sua madre, che urlava isterica al telefono:

Che hai fatto, Fiammetta? Hai distrutto mio figlio!

Io tacevo. Fissavo il tavolo vuoto, il punto dove prima cera la scatola.

E per un attimo, rivivevo quella sera.

In quella scatola non cera una pistola.

Né prove di tradimenti, né vestiti, né fotografie.

Solo una chiavetta USB.

E qualche foglio stampato, con annotazioni in rosso, firme.

Ma per Dario, era molto più pericoloso di qualsiasi altra cosa.

Perché quei documenti li aveva nascosti per annia tutti.

Quando aprì la scatola, la sua risata si spense allistante.

Lo vidi impallidire, come se qualcuno gli avesse strappato via la vita.

Luca, il vecchio amico, si protese in avanti, cercando di capire cosa stesse succedendo.

Ginevra, la sua “segretaria”, sorrideva tesa, fingendo indifferenza, ma le dita le accartocciavano il bordo della tovaglia.

Cosè? chiese infine a voce bassa.

Dario non rispose. Si alzò, con la scatola in mano, e sparì nello studio.

Gli ospiti rimasero immobili.

Io intanto finii tranquillamente il dolce.

Quando la porta si chiuse dietro di lui, Ginevra non resistette:

Fiammetta, cosa cera dentro?

La guardai.

La verità sussurrai. Quella che lui non ha mai avuto il coraggio di dire.

Nella chiavetta cera tutto.

Le email che aveva scritto ai partner offshore.

I contratti falsi, le fatture fantasma, i bonifici allestero.

E un unico fascicolo, con scritto: “Segreto Non aprire.”

Ma io lavevo aperto.

Non lavevo trovato per caso. Una sera, avevo aiutato il suo contabile a trasferire dei dati dal computer al portatile.

Era tutto lì, in una cartella nascosta.

E in quel momento capii che accanto a lui non ero solo una moglie. Ero un ostaggio.

Aspettai per mesi.

Non per vendetta. Ma per il momento giusto.

Il momento in cui quelluomo, che mi aveva umiliata davanti a tutti, avrebbe capito cosa si prova a essere guardati dallalto in basso.

E quella sera arrivò.

Il mattino dopo, il caos regna in azienda.

Luca era arrivato presto.

Ginevra non si fece vedere.

Davanti allufficio stampa, aspettavano i giornalisti.

A mezzogiorno, tutta la città sapeva: lazienda di Dario era sospettata di riciclaggio.

Le notizie si diffusero in un lampo.

Io non dissi nulla.

Non mandai nulla a nessuno.

Bastò che la chiavetta sparisse dopo cena.

La sera, il telefono era quasi rovente.

Fiammetta, parliamone! scrisse.

Poi di nuovo: Non capisci cosa stai facendo!

Infine: Ti prego ti amo.

Alla fine, risposi con un solo messaggio:

«Una volta mi chiedesti se credevo che sarei mai diventata qualcuno. Ora lo sai.»

Una settimana dopo, se ne andò.

La casa si immerse nel silenzio.

Il suo nome scomparve dal sito aziendale, dalle riviste, dalle notizie economiche.

Io aprii il mio piccolo studio.

Non era grande, ma ogni centimetro era mio.

Alle pareti, appesi le mie fotoritratti di persone che piangevano, ridevano, vivevano.

E ogni volta che qualcuno diceva: «Si sente una forza speciale», io annuivo.

Sapevo da dove veniva quella forza.

Un pomeriggio, ricevetti una lettera.

Senza indirizzo.

Dentro, una vecchia foto: io e lui, giovani, sulla riva del Lago di Como.

Sul retro, solo una scritta:

«Perdonami. Avevi ragione.»

La misi in un cassetto. Senza rancore.

Ma con gratitudineperché quelluomo mi aveva insegnato ciò che nessun altro avrebbe potuto:

che la vera forza non sta nelle urla, ma nel sorridere in silenzio.

A volte, camminando per la città, credo di vederlo.

Un uomo tra la folla, con unandatura che riconosco.

Non so se sia davvero lui, o solo un ricordo.

Ma so cosa penserebbe, se mi vedesse:

La donna che un tempo chiamava “giocattolo”, ora è in piedi nella sua galleria, circondata da giornalisti, telecamere, e sotto il suo nome cè scritto:

«Fiammetta Rossi I colori della realtà.»

E allora, sicuramente, gli torna in mente la scatola nera.

E quel sorriso con cui tutto ebbe inizio.

Perché ogni storia di umiliazione, alla fine, diventa una storia di forza.

La mia, ora, aveva finalmente trovato la sua fine.

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Al mattino nuotava nella luce grigia, la macchina del caffè scattò, il vapore saliva lentamente oltre la finestra.