All’alba in cerca di dignità: la vita di un raccoglitore di rifiuti

**Diario personale**

Mi svegliavo alle tre del mattino. Lavoravo come netturbino per le strade di Roma. Grazie ai miei buoni voti a scuola, avevo vinto una borsa di studio per l’università. Il mio sogno era diventare ingegnere. Non per arricchirmi, ma per avere una vita migliore e aiutare la mia famiglia.

Non era facile. Per conciliare studio e lavoro, dovevo organizzare ogni minuto. Mi alzavo all’alba, studiavo un’ora o due prima di uscire, poi lavoravo dalle cinque alle nove. A volte di più. Tornavo di corsa a casa o nei bagni pubblici, lavandomi come potevo. D’inverno gelavo, d’estato il sudore non se ne andava mai.

A volte arrivavo in ritardo a lezione. Altre volte, anche se mi ero lavato, l’odore del camion della spazzatura mi seguiva. Non era una scelta, ma una necessità.

I miei compagni mi guardavano male. Si allontanavano, ridevano sottovoce—e io sentivo. Alcuni aprivano le finestre con esagerazione, altri facevano battute. Nessuno voleva sedersi accanto a me.

Io abbassavo la testa. Non dicevo nulla. Aprendo il quaderno, mi concentravo. A volte le mani mi tremavano per la stanchezza, a volte gli occhi si chiudevano da soli. Ma resistevo. Perché volevo andare avanti. Perché sognavo qualcosa di meglio.

I professori se ne accorgevano. Rispondevo bene, partecipavo, capivo in fretta. Non copiavo, non mi lamentavo.

Un giorno, dopo un esame difficile, il professore entrò in aula serio. Disse che tutti erano stati bocciati. Silenzio. Poi aggiunse: “Tutti tranne Matteo”.

I sussurri iniziarono. Alcuni non ci credevano, altri si irritarono. “Chissà come fa”, “Il prof gli fa favori”, bisbigliavano.

Il professore mi guardò e chiese a voce alta: “Come fai a essere così preparato, Matteo?”

Ero nervoso. Non ero abituato a tutti quegli sguardi. Deglutii e risposi: “Studio ad alta voce. Ripeto finché non mi entra in testa. Faccio schemi. A volte mi registro e ascolto mentre lavoro”.

Nessuno parlò.

Quel giorno, il professore uscendo dall’aula sentì alcuni studenti prendermi in giro. Si fermò e li affrontò: “Voi non sapete cosa significa faticare. Lui lavora dalla mattina presto, mentre voi dormite. Eppure viene qui, rende più di tutti, e non si lamenta. Dovreste vergognarvi. Invece di deriderlo, dovreste imparare da lui”.

Gli studenti tacquero. Qualcuno abbassò lo sguardo. Uno si avvicinò e mi chiese scusa. Poi un altro. Il professore mi si sedette accanto e mi disse: “Non mollare, Matteo. La vita non è sempre giusta, ma quello che fai ha valore. Non sei solo”.

Non dissi molto. Sorrisi. Dentro di me, sentii che ogni sacrificio stava avendo un senso.

Non fermarti. Il tuo valore non sta in come ti vedono, ma in ciò che fai quando nessuno ti aiuta. Come Matteo. Non arrenderti. Tutto ciò che fai, un giorno, darà frutto. Te lo meriti.

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