Era il festeggiamento del settantesimo compleanno di mia suocera, e per me non c’era posto. Senza dire una parola, mi girai e me ne andai, facendo poi ciò che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.
Ero sulla soglia della sala da ballo con un mazzo di rose bianche tra le mani, incapace di credere ai miei occhi. Al lungo tavolo, decorato con tovaglie dorate e bicchieri di cristallo, sedevano tutti i parenti di Riccardo. Tutti tranne me. Non c’era spazio per me.
“Elena, che fai lì? Vieni!” gridò mio marito, senza staccarsi dalla conversazione con il cugino.
Percorsi lentamente il tavolo con lo sguardo. Non c’era davvero posto. Ogni sedia era occupata, e nessuno si era nemmeno mosso per farmi spazio o offrirmi un posto. La suocera, Donatella Rossi, sedeva in testa al tavolo con un vestito dorato, come una regina sul trono, fingendo di non vedermi.
“Riccardo, dove devo sedermi?” chiesi piano.
Finalmente si voltò verso di me, e nei suoi occhi vidi irritazione.
“Non lo so, arrangiati. Vedi che tutti sono impegnati a parlare.”
Qualcuno dei presenti ridacchiò. Sentii il sangue salirmi alle guance. Dodici anni di matrimonio, dodici anni di umiliazioni da parte di sua madre, dodici anni passati a cercare di essere accettata in quella famiglia. E il risultato? Nessun posto per me al tavolo del settantesimo compleanno di mia suocera.
“Forse Elena può sedersi in cucina?” propose la cognata Isabella, e nella sua voce sentii un velato sarcasmo. “Lì c’è uno sgabello.”
In cucina. Come una domestica. Come una persona di serie B.
Mi voltai in silenzio e uscii, stringendo il mazzo di rose così forte che le spine mi trafissero i palmi. Dietro di me, risate e barzellette. Nessuno mi chiamò. Nessuno cercò di fermarmi.
Nel corridoio del ristorante, gettai le rose nel cestino e presi il telefono. Le mani mi tremavano mentre chiamavo un taxi.
“Dove andiamo?” chiese l’autista quando salii in macchina.
“Non lo so,” risposi onestamente. “Vada avanti. Da qualche parte.”
Attraversammo la città di notte, e io guardavo fuori dal finestrino le luci delle vetrine, i rari passanti, le coppie sotto i lampioni. E all’improvviso capii: non volevo tornare a casa. Non volevo rientrare nel nostro appartamento, con i piatti sporchi di Riccardo, i calzini sparsi sul pavimento, e il solito ruolo di casalinga devota, pronta a servire senza mai pretendere nulla.
“Mi lasci alla stazione,” dissi all’autista.
“Sicura? A quest’ora non ci sono treni.”
“Fermi, per favore.”
Scesi dal taxi e mi diressi verso l’edificio della stazione. Nella tasca avevo la carta di credito, il conto condiviso con Riccardo. C’erano i nostri risparmi, destinati a una macchina nuova. Venticinquemila euro.
Alla biglietteria c’era una ragazza assonnata.
“Che cosa avete per domani mattina?” chiesi. “Per qualsiasi città.”
“Milano, Roma, Napoli, Venezia…”
“Roma,” dissi senza pensarci. “Un biglietto solo.”
Passai la notte in un bar della stazione, bevendo caffè e ripensando alla mia vita. A dodici anni prima, quando mi ero innamorata di un bel ragazzo dagli occhi scuri e sognavo una famiglia felice. A come, lentamente, mi ero trasformata in un’ombra che cucinava, puliva e taceva. A come avevo dimenticato i miei sogni.
Eppure, i sogni li avevo. All’università avevo studiato design d’interni, immaginavo il mio studio, progetti creativi, un lavoro appassionante. Ma dopo il matrimonio, Riccardo aveva detto: “A che ti serve lavorare? Guadagno abbastanza io. Occupati della casa.” E io mi ero occupata della casa. Per dodici anni.
Al mattino, salii sul treno per Roma. Riccardo mi aveva mandato messaggi: “Dove sei? Torna a casa.” “Elena, dove sei?” “Mamma dice che te la sei presa. Ma sei una bambina?” Non risposi. Guardavo dal finestrino i campi e i boschi sfrecciare via, e per la prima volta da anni mi sentivo viva.
A Roma affittai una stanza in un appartamento condiviso vicino a Piazza di Spagna. La padrona di casa, una signora anziana di nome Clara, non fece troppe domande.
“Resta a lungo?” chiese solo.
“Non lo so,” risposi. “Forse per sempre.”
La prima settimana la passai a girare la città. Osservavo l’architettura, visitavo musei, mi sedevo nei caffè a leggere. Non leggevo nulla da anni, a parte ricette e consigli per le pulizie. Scoprii quanti libri interessanti erano usciti nel frattempo.
Riccardo chiamava ogni giorno: “Elena, basta fare la stupida! Torna a casa!” “Mamma dice che ti chiederà scusa. Che altro vuoi?” “Ma sei impazzita? Sei un’adulta e ti comporti come un’adolescente!” Ascoltavo le sue urla e mi chiedevo: com’era possibile che un tempo quelle intonazioni mi fossero sembrate normali? Come avevo accettato di essere trattata come una bambina capricciosa?
Quella fuga divenne la mia rinascita. A Roma trovai lavoro, riscoprii la mia passione per il design, imparai a vivere per me stessa. Passarono anni. La timida casalinga che era scappata da un matrimonio opprimente divenne una donna sicura, una professionista rispettata.
Un giorno, ricevetti un mazzo di rose bianche da un uomo che mi amava per ciò che ero, non per ciò che potevo fare per lui. E capii finalmente: a volte, l’umiliazione è solo il primo passo verso la libertà.





