**11 maggio, Roma**
Finalmente, dopo anni di sacrifici, siamo riusciti a trasferirci in un ampio trilocale nel quartiere Prati. Nella vecchia casa, con due figli maschi, ci stavamo stretti, ma ora le cose andavano meglio. Il mio lavoro come architetto aveva preso una buona piega, e la nuova casa fu un nuovo inizio. Non solo per noi, ma anche per l’amicizia che nacque con i nostri vicini: una giovane coppia, Luca e Francesca, con la loro bambina, Sofia. Diventammo come una famiglia, passando le serate insieme, organizzando gite fuori porta, e i nostri figli giocavano felici.
Ma la vita a volte ci presenta prove durissime. Un giorno scoprimmo che Luca aveva una malattia grave. Non potevo crederci: era sempre stato così pieno di vita. Francesca, la mia cara amica, cominciò a spegnersi. Dimagriva, si chiudeva in sé stessa. Cercavo di starle vicino, le dicevo che sarebbe andato tutto bene, facevo battute per farle scappare un sorriso. Ma i medici non davano speranze.
Per mesi, io e mio marito aiutammo quella famiglia in ogni modo. Ci indebitammo per pagare le cure, portavamo da mangiare, portavamo Sofia con noi al parco. Poi, un giorno, Luca ci lasciò. Fu come se ci avessero strappato via un pezzo di cuore. Francesca era una larva della donna che era stata. Passavo le giornate con lei nei giorni dopo il funerale, ma lentamente si allontanò. Si rinchiuse in casa, evitava perfino di guardarci, e solo Sofia veniva da noi – per mangiare, giocare, o semplicemente per stare al caldo.
Una mattina, Sofia bussò alla nostra porta e mi chiese timidamente da mangiare. Aveva fame. Mentre divorava la merenda, salii da Francesca. L’appartamento era disordinato, puzzava di alcool, e lei dormiva per terra, vestita. Nel frigo, nemmeno un biscotto. Provai a parlarle, a supplicarla, ma era inutile. Stava sprofondando, e Sofia veniva da noi sempre più spesso. Le accarezzavo i capelli, le promettevo che non l’avrei mai abbandonata. Nel cuore, sentivo che ormai era mia. Noi avevamo sempre desiderato una figlia. E la sorte ce l’aveva mandata.
Una sera, uscita in balcone, sentii un litigio per strada. La voce di Francesca:
«Sofia, vestiti subito!»
«No! Voglio stare con zia Elena!» piangeva la bambina.
Corsi giù. Francesca era ubriaca e la trascinava per un braccio.
«Francesca, ma che fai?! Non sei neanche in grado di camminare!» gridai.
«È mia figlia! Faccio quello che voglio!» urlò.
«Non pensi lucidamente, lasciala! Non può venire con te così!»
Allora, furiosa, mi spinse Sofia tra le braccia e gridò:
«Tienitela! Fai quello che vuoi! Tanto non mi serve più niente!»
Sofia singhiozzava. La strinsi forte e sussurrai:
«Sono qui, piccola. Tutto andrà bene.»
Da quel giorno, Sofia visse con noi. Il tribunale tolse a Francesca la patria potestà. Dopo qualche mese, diventammo legalmente i suoi genitori e ci trasferimmo a Firenze. I miei figli crebbero, si sposarono, e Sofia si iscrisse all’università, dove conobbe suo marito. Mantenemmo sempre i contatti, scrivendoci e telefonandoci.
Poi, una mattina, mi svegliai con una voce che non mi aspettavo:
«Mamma, svegliati! Siamo arrivati!»
Mi strofinai gli occhi: Sofia era sulla porta, raggiante, con suo marito e le valigie.
«Siete qui per qualche giorno?» chiesi, con le lacrime agli occhi.
«No. Per sempre. Vogliamo vivere qui, tornare alle mie radici. Cercheremo una casa.»
«Ma venite a stare con me! C’è spazio!» La abbracciai e notai che si accarezzava dolcemente la pancia. «Sei incinta?»
«Sì, già quattro mesi, mamma…»
Piansi di gioia. La casa si riempì di nuova luce, di speranza. Quando nacque mio nipote, diventai nonna per la terza volta. I miei figli venivano spesso a trovarci, e la casa fu di nuovo piena di risate. Guardavo la mia famiglia – mia figlia, mio nipote – e sapevo che il destino aveva scelto per noi. E aveva fatto la scelta giusta.
**Morale:** Le prove più dolorose a volte ci conducono alle più grandi gioie. E quando l’amore chiama, anche il destino si inchina.