Ginevra non si fidava mai di suo marito. Così aveva imparato a contare soltanto su se stessa, come uneco di un sogno che si ripeteva nella sua vita con la precisione di un orologio senza lancette.
Vittorio era bello come un papavero appena sbocciato, il cuore di tutti i raduni. Beveva moderatamente, non fumava, e non correva a pesca, calcio o caccia. In pratica, un tipo così, anche il Palazzo di Venezia lo accetterebbe.
Grazie a questi pregi, Ginevra intuiva che Vittorio cercava consolazione al di fuori delle mura di casa. Quei cacciatori si trovavano sempre, e le cacciatrici non tardavano ad apparire
Lunico conforto per Ginevra era ladorazione che Vittorio riservava al loro piccolo Stefano. Il figlio era il suo unico pensiero, il suo unico rifugio, e Ginevra credeva che quellamore paterno bastasse a tenere unita la famiglia.
Da bambina, Ginevra era bersaglio dei compagni di scuola, che la soprannominavano Gine per i suoi ricci rossi come fiamme e le lentiggini disseminate sul viso. La madre, una bellezza di cartapesta, le sussurrava: «Gine, sei come un anatroccolo brutto. Scusami per il paragone, ma è una verità amara. Nessuno ti sposerà, quindi dovrai affidarti solo a te stessa. Studia, costruisci una carriera, e se un giorno un buon uomo ti avvicinerà, sii una moglie obbediente». Quelle parole la seguirono come unombra per tutta la vita.
Dopo aver concluso la scuola con la medaglia doro, Ginevra si iscrisse alluniversità di Milano, dove incontrò Vittorio. Non capiva perché quel giovane così ambito fosse attratto da lei, una ragazza senza trucco, vestita senza sfarzo, incapace di fare il piccolo gioco della civetteria. Quando si rese conto che lui la corteggiava seriamente, decise di prendere liniziativa: propose a Vittorio di sposarsi.
Lui rimase inizialmente sbalordito da quella proposta così audace, ma Ginevra promise di essere una moglie remissiva, umile e fedele. «Lamore arriverà col tempo», lo persuase. Dopo qualche esitazione, Vittorio accettò, grazie anche al sostegno della madre, Vittoria Orazia.
Quando Vittorio introdusse Ginevra a sua madre, Vittoria Orazia la osservò con sguardo critico, quasi a soppesare un frutto acerbo. «Il figlio è più bello del sole, più chiaro della luna; qualsiasi donna lo vorrebbe. Eppure ecco questa lentigginosissima sembra una macchia». Il primo incontro non andò bene.
Ginevra avvertì il disappunto della suocera, ma capì che un marito bello poteva diventare un ostacolo alla felicità familiare. Decise comunque di andare da Vittoria Orazia senza portare Vittorio, sperando di salvare il suo futuro matrimonio. La suocera la accolse con un tè, e Ginevra, sorprendentemente, le parve carina. «Mi sto abituando», pensò Vittoria Orazia. Ginevra promise di essere una moglie fedele e sottomessa fino alla fine dei suoi giorni, e quella promessa pesò più di qualsiasi difetto estetico.
Vittoria Orazia era una donna sola; il suo marito laveva abbandonata anni prima per una nuova fiamma, tornò poi frastagliato e disprezzato dalla sua famiglia. Da allora si chiedeva se doveva perdonare linfedeltà o continuare a portare il peso del tradimento. Decise di approvare la scelta del figlio, sperando che Ginevra arrivasse da lui per qualsiasi sentiero, anche i più accidentati. Benedisse così il loro matrimonio.
Un anno dopo nacque Stefano, una piccola copia del padre, e Vittoria Orazia ne fu alata. Vittorio si aggirava attorno al figlio come una farfalla impazzita, Stefano divenne il suo unico senso di vita. Lamore per la moglie, però, non sbocciava.
Ginevra non provava passione per Vittorio; la loro vita era tranquilla, routine di lavatrici, cene, baci sulla guancia prima di dormire. Vittorio dava a Ginevra lintero stipendio, fiori per il compleanno e baci mattutini, ma tutto sembrava più un rituale che un vero sentimento. La famiglia attendeva larrivo di quelle emozioni descritte nei libri e raccontate dagli amici.
Cinque anni dopo, Vittorio scoprì quellemozione fuori dalla sua casa. Era una donna di bellezza celestiale, chiamata Benedetta, la cui aura era di unaltra dimensione. Sedotto dal suo fascino, Vittorio iniziò a incontrarla in caffè, su panchine, negli appartamenti di amici. La doppia vita lo logorava, e Stefano cominciava a vedere un padre irritato più che sorridente. Benedetta pose una condizione: «O rimani con me, oppure restiamo amici. Non voglio stare con donne vecchie».
Vittorio, confuso, non voleva perdere Benedetta, ma anche Stefano era prezioso. Ignorò Ginevra, come se non esistesse più. Quando Stefano aveva cinque anni, Vittorio impacchettò le sue cose e lasciò la famiglia.
Ginevra ricordò le parole della madre. Nonostante fossero state ferite, ora capiva che la fine di quel matrimonio non sarebbe stata una tragedia da saltare dal ponte in un fiume profondo, ma un semplice passo oltre tre ruscelli di lacrime.
Il ricordo di quella storia le rimase come un frammento di cuore che si era infilato nelle profondità dellanima, pronta a volare via come un uccello libero.
Al suo addio, Ginevra disse a Vittorio: «Le porte saranno sempre aperte per te, ma non tardare a tornare. Stefano ti vuole bene, non farlo soffrire».
Vittorio trascorse sei mesi a vagare tra il figlio e Benedetta. Ginevra conservava con cura lo spazzolino di Vittorio, posato in un bicchierino nel bagno. Ogni volta che Vittorio veniva a lavarsi le mani, lo spazzolino sembrava fissarlo con occhi silenziosi, quasi a rimproverarlo. Una volta, Vittorio lo mise in tasca, deciso a gettarlo via, ma al ritorno trovò al suo posto uno nuovo.
In cucina lo aspettava sempre una tazza di caffè caldo; nel corridoio le pantofole attendevano il loro padrone. Quegli oggetti domestici graffiavano lanima di Vittorio, spingendolo a correre via dal suo stesso rifugio, senza capire davvero perché fosse stato attratto da Benedetta.
Mentre Vittorio continuava a chiedersi come non far soffrire i propri cari, Ginevra rimaneva silenziosa, accogliendo le sue partenze con un Vieni, Vit, non dimenticare di noi. Benedetta, stanca di tutto quel trambusto intorno a Stefano, gli ricordava: «Se ti allontano, è per il tuo piccolo, lo ami più di me». Così continuò per anni.
Le amiche di Ginevra le sussurravano: «Dovresti sposarti, Gine! Che aspetti? Il tuo padre ha bisogno di un figlio ogni giorno, non solo a festa. Dimentica Vittorio!» Ginevra ascoltava, sospirava e taceva. Col tempo le amiche smisero di insistere; tutti accettarono che fosse sola.
Il tempo scorreva inesorabile. Vittorio smise di visitare Stefano. Ora padre e figlio si incontravano su una linea neutra. Stefano finì le scuole, e Ginevra si convinse che il marito non sarebbe più tornato: erano passati dodici lunghi anni.
Decise allora di chiudere quel capitolo, di non più attendere Vittorio. Con ancora forza, decise di avere un secondo figlio. Prenotò un viaggio verso coste più calde, dove visse una breve avventura estiva, senza impegni né promesse, solo un ricordo di una panchina al tramonto.
Nove mesi dopo, Stefano ebbe una sorellina, Maristella. Le amiche di Ginevra rimasero stupefatte davanti al suo gesto decisivo, in piedi davanti al reparto maternità, aspettando la piccola. Ginevra uscì, stanca ma felice, con un fasciatoio decorato da nastri rosa. «Ciao ragazze! Vi presento la mia Maristella!», sorrise.
Una amica chiese: «E col patronimico, come la chiamerai?»
«Con il patronimico si cresce», replicò Ginevra.
Nessuna delle frecciate delle amiche poté offuscare la gioia di Ginevra; la sua vita era ora tutta dedicata a Maristella. Stefano diventò il primo e insostituibile aiutante, adorando la sorellina, senza mai chiedere a Ginevra domande scomode sul padre di Maristella: Sei felice, mamma, e questo è tutto.
Quando la piccola fu affidata allasilo a tre anni, i compagni la illuminavano: i bambini hanno anche papà, oltre alle mamme! Maristella iniziò a chiamare Stefano papà, unespressione dolce e amara.
Una sera, nella casa di Ginevra, si sentì un timido bussare. Maristella corse verso la porta gridando: «È mio papà!» Ginevra scrutò lo spioncino e vide Vittorio! Aprì di gran passo.
«Posso entrare, Ginevra?» chiese il visitatore tardivo e inatteso.
«Entra, se sei qui», rispose Ginevra, senza nascondere sorpresa.
Vittorio posò due sacchi carichi di bagagli e scarabocchiò la sua valigia. Maristella si lanciò verso lo sconosciuto, abbracciandolo: «Mamma, è il mio papà, vero?» Ginevra, con gli occhi colmi di lacrime, rispose: «Sì, tesoro, è tuo papà».
Vittorio sollevò la bambina, baciò il suo naso lentigginoso, accarezzò i ricci dorati: «Ciao, mio russino!» Poi si avvicinò a Ginevra, la baciò intensamente.
«Grazie infinite, Ginevra! Mi perdonerai?» implorò, inginocchiandosi. Ginevra, con dolce fermezza, afferrò il suo avambraccio, impedendogli di cadere a terra.
«Ciao, mio amaro miele. Sei sparito per diciassette anni, ma non porto rancore. Chi ricorda il passato ora ci serve un papà».
Stefano, con gli occhi spalancati dallo stupore, osservava la scena.
Qualche settimana dopo, Ginevra, rimessa danimo, telefonò a unamica curiosa e disse: «Volevi sapere il patronimico di mia figlia? È Vittorina. Ricordalo, è definitivo!»






