Anna Bianchi era seduta sulla panchina del giardino dellospedale di Bologna, la testa china, gli occhi che cadevano a pioggia. Quel giorno doveva compiere ottanta anni, e né il figlio né la figlia avevano bussato alla sua porta, né le avevano dedicato una frase di auguri. Solo la compagna di stanza, Eugenia Serravalle, le aveva portato un biglietto e un piccolo dono, e Marta, la giovane infermiera, le aveva offerto una mela luccicante in segno di festa. Il resto del personale rimaneva freddo come il marmo, indifferente al suo dolore.
Tutti sapevano che gli anziani finivano in queste strutture perché i figli li consideravano un peso. Marco, il figlio, aveva detto che la portava per riprendersi e guarire, ma in realtà voleva liberarsi della madre, che ormai ostacolava la cognata. Lappartamento di Anna era ancora suo, ma Marco laveva convinta a firmare una donazione, promettendo che avrebbe continuato a vivere lì come sempre. Invece, la famiglia si trasferì nella sua casa e scoppiò una guerra con la cognata, sempre scontenta, che lasciava la stanza sporca e lacqua della vasca incrostata. Marco, inizialmente difensore, poi cessò di intervenire e cominciò a urlare con lei. Anna notò che i due parlottavano sottovoce e tacciono non appena lei entrava.
Una mattina, Marco iniziò a parlare del riposo e della cura. Anna, guardandolo dritto negli occhi, chiese amaramente:
Mi vendi al caso di riposo, figlio mio?
Lui arrossì, balbettò e rispose colpevolmente:
Mamma, è solo una struttura sanitaria. Stai qui un mese e poi torni a casa.
Con una firma rapida, Marco la portò via, firmò i documenti e partì di corsa, promettendo di tornare presto. Apparve una sola volta, con due mele e due arance, chiese come stesse e, senza attendere risposta, scomparve.
Il tempo passò. Dopo un mese, il figlio non era più tornato. Anna chiamò il telefono di casa; risposero voci sconosciute. Scoprì che Marco aveva venduto lappartamento e non si sapeva dove fosse. Piangeva per due notti, sapendo che non lavrebbero più portata a casa, che ormai le lacrime non avrebbero più potuto cambiare nulla. Il più grande rimorso era quello di aver ferito la figlia per il bene del figlio.
Anna era nata in un borgo della campagna toscana. Lì sposò il suo compagno di scuola, Pietro. Vivevano in una casa grande, con un piccolo podere. Non erano ricchi, ma neanche affamati. Un giorno, un amico di città venne a trovarli e descrisse la vita metropolitana: stipendi alti, abitazioni pronte a prendere. Pietro, entusiasta, decise di trasferirsi. Venderono tutto e si spostarono a Milano. Lamico mantenne la promessa: subito gli fu data una piccola casa, comprò dei mobili e una vecchia Lancia. Con quella Lancia Pietro ebbe un grave incidente, e due giorni dopo morì nellospedale. Dopo il funerale, Anna rimase sola con due figli in braccio. Per sbarcare il lunario lavava i pavimenti dei condomini la sera. Sperava che i figli crescessero e la aiutassero, ma il destino le riservò altre difficoltà.
Il figlio Marco finì nei guai, dovette prendere soldi in prestito per non finire in carcere; per due anni restituì i debiti. La figlia, Ginevra, si sposò, ebbe un bambino e per un anno tutto andò bene. Poi il figlio iniziò a stare male, e Anna lasciò il lavoro per accompagnarlo di ospedale in ospedale. I medici non riuscivano a dare una diagnosi; alla fine scoprirono una malattia rara curata solo in un istituto di ricerca a Firenze, ma le liste dattesa erano infinite. Mentre Ginevra correva alle visite, il marito la abbandonò, lasciandole solo la casa. In quellospedale incontrò un vedovo, Luigi, la cui figlia soffriva della stessa patologia. Si innamorarono e cominciarono a vivere insieme. Cinque anni dopo, Luigi cadde gravemente malato; Anna aveva dei risparmi e voleva usarli per la caparra di una casa per il figlio. Quando Ginevra chiese quei soldi, Anna rifiutò: Preferisco che tu li riservi al tuo ragazzo, non a un estraneo. La figlia, ferita a morte, le disse che non era più sua madre e che non lavrebbe più chiamata in caso di bisogno. Da allora, per ventanni, non si parlarono più.
Ginevra curò il marito, e i due bambini partirono per vivere al mare. Se potesse tornare indietro, Anna farebbe tutto diversamente, ma il passato non si riscrive.
Anna si alzò lentamente dalla panchina della residenza Villa Serenità a Verona, e iniziò a camminare verso lingresso. Allimprovviso, una voce la colse:
Mamma!
Il cuore le balzò in petto. Si girò lentamente: era Ginevra, le gambe traballanti, quasi cadde, ma la figlia la raggiunse in corsa e la sorreggeva.
Ti ho cercata da tanto Il fratello non voleva darmi lindirizzo, ma lho minacciato in tribunale, dicendogli che aveva venduto la casa illegalmente. Allora è tacito
Entrarono nella hall e si adiarono sul divano di velluto.
Perdona, mamma, per tutti gli anni di silenzio. Ero arrabbiata, poi rimandavo, mi vergognavo. Una settimana fa ti ho sognata, camminavi nei boschi e piangevi.
Mi sono alzata, il peso mi schiacciava, ho raccontato tutto al marito, e lui mi ha detto di tornare e fare la pace. Vengo qui e trovo gente che non sa nulla di noi.
Ho cercato lindirizzo di tuo fratello, lho trovato. Sono qui. Preparati, andremo insieme. Sai comè la casa? Grande, sulla riva del mare. Mio marito ha detto: se la mamma sta male, la portiamo da noi.
Anna si aggrappò alla figlia, le lacrime che le rigavano il volto non erano più di dolore, ma di gioia.
Possa il ricordo del tuo padre e di tua madre prolungare i tuoi giorni sulla terra che Dio ti ha dato.






