Anziana con il fagotto si prepara alla solitudine… ma la attende la felicità, non il tradimento

**Diario Personale**

La vita sa ferire, a qualsiasi età. Ma soprattutto nell’ultima. Quando hai già vissuto tutto ciò che potevi, dato il meglio di te, e poi ti ritrovi sola. Indifesa. Bisognosa. Inutile. Peggio della solitudine è solo la sensazione di essere tradita da chi per cui hai vissuto. E Giuseppina Rossi ne era certa: la sua ora era arrivata.

Quel giorno, seduta nella sua stanza, ascoltava i rumori della cucina dove la nuora, Alessia, preparava qualcosa. Pensava al passato. A suo figlio Marco, scomparso da tre anni. Al nipote, trasferitosi a Milano per lavoro e che ormai chiamava raramente. A se stessa, vecchia, goffa, sempre di troppo. Si sentiva un peso. Per questo non si stupì quando Alessia entrò nella stanza, il volto serio e la voce tagliente:

“Giuseppina, preparati. Voglio portarti in un posto. Penso ti piacerà.”

Un brivido gelido le attraversò il corpo. Il cuore le si strinse, le dita affondarono nei braccioli della poltrona.

“Dove?” riuscì a sussurrare con voce roca.

“Lo vedrai presto,” rispose Alessia, evitando il suo sguardo.

Quelle parole confermarono i suoi peggiori sospetti. Giuseppina sapeva come andavano queste cose. Prima sopportano, poi si irritano, e infine, senza scandali, ti portano via. In un posto da cui non si torna. Dove l’odore di disinfettante si mescola alla disperazione. Dove nessuno ti stringe la mano o ti chiama “mamma”.

Dopo la morte di Marco, Giuseppina aveva venduto la sua casa — i soldi erano finiti in cure e notti insonni. Rimasta sola, Alessia le aveva offerto un tetto. Il loro rapporto era sempre stato teso. Ma la nipotina Sofia, la sua unica gioia, le voleva bene, e questo alleviava un po’ il peso della solitudine.

“Posso salutare Sofia?” chiese Giuseppina, torcendo il lembo della vestaglia tra le dita.

“Certo,” rispose Alessia, sorpresa. “Ma sbrighiamoci.”

Ci mise poco. Aveva poche cose. Solo un vecchio fagotto in cui aveva riposto ciò che le restava. Sospirò, sfiorando la cornice della porta, le pareti, come per un ultimo saluto. Poi seguì Alessia, a piccoli passi lenti, quasi senza far rumore.

Per tutto il viaggio fissò il pavimento. Non voleva vedere le strade, le case, la gente. Non le importava. Si sentiva come condannata, chiedendosi solo perché Alessia avesse aspettato tanto a liberarsi di lei.

“Siamo arrivate,” disse Alessia.

Giuseppina alzò lo sguardo. E non capì. Intorno, era tutto come in un dipinto: boschi, un ruscello, montagne in lontananza. Si sentiva il profumo di pino e aria fresca. Nessun recinto, infermiere o strutture tristi. Solo una casetta, piccola e accogliente, come uscita da una cartolina d’altri tempi.

“Che cos’è?” chiese, confusa.

Alessia respirò profondamente e rispose:

“Marco mi raccontava del tuo sogno di vivere tra i monti, vicino all’acqua. Ho pensato a lungo come realizzarlo. Ho venduto l’appartamento e comprato questa casa. Vivremo qui, insieme. Sofia è grande ormai, le prenderemo un appartamento in città perché iniziare la sua vita. Ma tu… qui sarai felice davvero. Scusami se non te l’ho detto prima. Volevo farti una sorpresa.”

Giuseppina rimase immobile. Non ci credeva. Stringeva il fagotto come un salvagente, fissando la nuora. Poi scoppiò in lacrime. Non di dolore. Non di paura. Ma perché, finalmente, qualcuno l’aveva ascoltata. Perché era ancora importante.

“Perdonami, Alessia… Per tutto. Per le liti, per la tua freddezza. Avevo torto io,” sussurrò, abbracciandola.

“Non importa, Giuseppina. Andrà tutto bene. Siamo una famiglia. Io ci sarò sempre.”

Rimasero così, abbracciate nel cortile, più vicine che mai. Mentre alle loro spalle il ruscello mormorava dolcemente, e tra gli alberi sussurrava il vento di una vita nuova, dove la vecchiaia non sarebbe più stata spaventosa, e l’amore non una finzione.

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