«Anziana dona appartamento al figlio minore e l’altro trama una crudele vendetta»

Ieri mattina presto mia madre mi ha chiamato con una voce piena di preoccupazione:
“Figlia mia, per favore, vai dalla nostra vicina, la signora Pia. È molto turbata e ha chiesto un consiglio legale. Non ha spiegato altro, solo che sei una donna intelligente e che potresti aiutarla…”

Conoscevo Pia Rossi fin da bambina. Abbiamo vissuto nello stesso palazzo per anni, e anche dopo che mi sono sposata e trasferita, tornavo spesso a trovare mia madre e salutavo la signora Pia alla panchina del cortile. Ha novant’anni, ma fino a poco tempo fa camminava ancora vivacemente, sorrideva sempre, portava dei dolci a mia madre e chiacchierava con le vicine. Ultimamente, però, si lamentava spesso del cuore e della pressione alta. Il suo figlio minore, Matteo, viveva con lei e la aiutava in tutto. Il maggiore, Marco, invece, abitava dall’altra parte della città e la visitava sempre meno.

Marco, anni fa, era partito per l’accademia militare, poi aveva prestato servizio, si era sposato, aveva ottenuto un appartamento, una casa al mare e una macchina. Benestante, indipendente, ma distante. Con la madre i rapporti erano sempre stati tesi: a volte silenzioso, altre volte offeso o autoritario. Matteo, invece, era rimasto accanto a lei. Col passare degli anni, era diventato il suo unico sostegno. E così, questa primavera, Pia aveva deciso di regalargli l’appartamento.

Quando Marco lo aveva scoperto… non aveva protestato. Aveva detto:
“A me non serve, ho già tutto. Che almeno Matteo abbia qualcosa.”
Sembrava tutto risolto nel modo più giusto. Ma la pace era durata poco.

Quando sono andata a casa della signora Pia quella sera, si vedeva che aveva pianto. Si è seduta, si è asciugata gli occhi e, con la voce tremante, mi ha chiesto:
“Figlia mia… dove si può fare quella… come si chiama… l’analisi del DNA?”

Sono rimasta senza parole.
“Signora Pia, perché le serve?”

E allora mi ha raccontato tutto. Qualche giorno prima, Marco era arrivato da lei. Senza nemmeno salutare, con il volto cupo, le aveva detto:
“Non sono figlio di tuo marito. Abbiamo gruppi sanguigni diversi. Ora tutto ha senso. Ecco perché hai dato l’appartamento a Matteo e non a me. Per te io sono un estraneo. Lui, invece, è tuo figlio.”

Poi era uscito sbattendo la porta. Senza lasciarle dire una parola. E ora non rispondeva più alle sue chiamate.

La signora Pia sussurrava:
“Mio marito aveva il sangue Rh positivo, me lo ricordo… Ma il mio? Non sono sicura. Nel vecchio passaporto c’era scritto, ma l’ho cambiato anni fa. E il gruppo sanguigno di Marco non lo so neanche… Quando è nato, ero stordita dal parto, non ho mai chiesto…”

Le avevano consigliato il test del DNA. Ma le ho spiegato che non era così semplice: suo marito era morto più di vent’anni fa. Per fare l’analisi, serviva un campione biologico vivo – sangue, capelli, saliva – oppure l’esumazione. E quest’ultima richiedeva un’autorizzazione del tribunale, senza alcuna garanzia che venisse concessa. Senza conto il costo, esorbitante.

Pia si è messa a piangere di nuovo:
“Quindi non posso dimostrare a mio figlio che è davvero figlio di suo padre?”

A quel punto, non ho retto. Anche la mia voce ha tremato, stavo per piangere anch’io:
“Signora Pia! Non deve dimostrare niente a nessuno! Lui non le ha detto il suo gruppo sanguigno. È solo arrabbiato. Si è inventato una scusa. Vuole punirla. È un uomo adulto, ma si comporta come un bambino offeso. Lei ha agito con onestà – ha dato la casa a chi le è rimasto accanto. Lui ha solo trovato un modo per ferirla più profondamente.”

Ho preso fiato e ho continuato:
“Se vuole, vada in ospedale con Matteo e faccia l’esame del sangue. Magari all’archivio della clinica dove ha partorito troveranno qualcosa. E i documenti di suo marito potrebbero essere conservati da qualche parte. Ma anche se non ci fossero… Marco dovrebbe venire da lei, da uomo, e chiederle scusa. Non lanciare accuse che fanno più male di un coltello.”

Lei ha annuito, un po’ più calma.
“Hai ragione… Ma lui non risponde comunque al telefono…”

Le ho chiesto il numero di Marco. Una volta in strada, mi sono allontanata dal palazzo e l’ho chiamato. Ha risposto.
“Buongiorno,” ho detto. “Sono una vicina di sua madre.”
“Cosa vuole?”
“Vorrei parlarle della signora Pia…”
“Sto ascoltando.”
“Lei è molto preoccupata…”

E in quel momento, ha riattaccato. Senza una parola.

Sono rimasta a fissare lo schermo del telefono. Nel petto sentivo solo una cosa: quanto è facile distruggere i legami più sacri quando al posto dell’amore subentra il rancore. E quanto è terribile quando un figlio accusa sua madre di qualcosa che non ha mai fatto.

Pia non l’ha tradito. Ha solo regalato la sua unica casa a chi non l’ha mai lasciata sola. Marco, invece, se n’è andato da solo. E ora si vendica – con crudeltà, a sangue freddo, senza parole. Eppure, per lei, lui è sempre stato suo figlio. Il suo sangue. L’unico. Fino a ieri.

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