**Casa, o la storia di una famiglia**
Alessandra tornava lentamente da scuola, chiedendosi come fare perché sua madre non scoprisse il due sul registro. Se solo non fosse stata a casa! Allora avrebbe nascosto il diario e detto di averlo dimenticato in classe. Ma cosa fare domani? Non poteva certo dimenticarlo ogni giorno. Prima o poi, la mamma lo avrebbe scoperto.
«Oggi lo nascondo, domani farò di tutto per recuperare. Così non mi sgriderà troppo», decise, accelerando il passo.
La madre le ripeteva ogni giorno che doveva studiare bene, per non disonorare il nome di suo padre, che era stato un professore, e per tenere la mente allenata. La nonna materna aveva sofferto di Alzheimer, e la predisposizione genetica era un’ombra che pesava sulla famiglia.
Entrò in punta di piedi nell’appartamento, cercando di non far sbattere la porta. Il cappotto della mamma pendeva nell’ingresso: era a casa. Silenziosa, raggiunse la sua stanza e infilò il registro sotto il cuscino. Solo allora respirò. Si cambiò e si mise subito a studiare, perfino rileggendo due volte la lezione di storia, ma la madre non si fece viva. Strano.
Apriò la porta e ascoltò. Silenzio. Forse la mamma stava male e dormiva? La loro casa era grande, con soffitti alti e finestre ampie, nel cuore di Roma. I mobili, antichi e scuri, ingombravano le stanze, rendendo il corridoio tetro e claustrofobico.
D’improvviso, gli antichi orologi a pendolo in salotto batterono le ore. Alessandra sobbalzò, poi si calmò ricordando che erano quelli del nonno. Avanzò nel corridoio e sbirciò in cucina. La madre era seduta al tavolo, la testa appoggiata sulle braccia incrociate.
«Mamma», chiamò, sfiorandole la spalla.
La madre alzò il viso, gli occhi gonfi di pianto.
«Papà è morto. Durante la lezione…», disse con voce piatta. La strinse forte e scoppiò in lacrime. Anche Alessandra, dopo un attimo esitante, cedette al dolore.
Il giorno dopo non andò a scuola. Non importava più quel due. Passarono giorni tra ospedali, obitori, funerali, dove tanti colleghi del padre, rettore di facoltà, le dissero quanto fosse stato grande. Quel vecchio nella bara non le sembrava nemmeno lui.
Dopo i funerali, la madre si chiuse nel letto, piangendo, incapace di mangiare. Alessandra si arrangiò con pasta e sughi pronti, finiti i quali chiese soldi. La madre glieli diede senza domandare.
Una sera, tornando da scuola, trovò la mamma ai fornelli. «Come va a scuola? Cosa hai mangiato finora?», le chiese. Alessandra rispose. «Scusami, mi ero dimenticata di te. Ma ora andrò in facoltà, chiederò un posto. Dobbiamo andare avanti».
Il nuovo direttore, un ex allievo del padre, la assunse come assistente di laboratorio. La paga era bassa, così accettò anche di pulire la facoltà di notte. «La moglie del professore che lava i pavimenti», mormorava vergognosa. Alessandra spesso l’aiutava.
Ma i soldi non bastavano. La mamma vendette i suoi gioielli alle colleghe, accettando qualsiasi offerta. Quando finirono, arrivò la vicina, offrendosi di comprare i mobili. Ma la madre rifiutò. «Senza di loro, questa casa non sarebbe più la stessa».
Una sera, la madre le raccontò come erano arrivati lì. Lei, arrivata da un paesino per studiare, si era innamorata del professore, molto più grande. La suocera l’aveva sempre disprezzata, ma dopo la nascita di Alessandra si era ammalata di Alzheimer, dimenticando tutto. Due anni dopo, morì.
«Tuo padre cominciò a dimenticare anch’egli, proprio come lei. Era terrorizzato dall’idea di andare in pensione. Credo sia per questo che il cuore non ha retto».
Quando Alessandra era al liceo, la madre portò a casa Vittorio. «Non mi piace», le disse. Ma la mamma spiegò che era un uomo perbene, che avrebbe dato loro stabilità.
Per mesi andò tutto bene. Poi la madre si ammalò: prima una tosse, poi un lento spegnersi. I medici non capivano. Una notte, la chiamarono dall’ospedale. «Un infarto», dissero. Vittorio pianse ubriaco in cucina.
Passò un anno. Alessandra si iscrisse all’università. Vittorio beveva sempre più spesso. Una sera, lo sentì al telefono: «Presto sarà finita…».
La tosse di Alessandra peggiorò. Ricordando la madre, andò alla polizia, ma la mandarono via. Fu un giovane agente, Marco, ad ascoltarla. Trovarono una fiala nel cestino. Vittorio fu arrestato.
«Cosa farai ora?», le chiese Marco.
«Venderò l’appartamento», rispose.
«Tienilo. Vendi i mobili, rifà i muri. Se vuoi, ti aiuto».
Lo fecero. E un giorno Marco le disse: «Posso restare?».
Alessandra sorrise. «Sì».
Dopo sei mesi si sposarono, felici in quella vecchia casa. Senza i mobili antichi, ma con molto amore.
La vita, come una zebra, alterna strisce nere e bianche. Ma per Alessandra, dopo tanta oscurità, arrivò finalmente la luce.