Arrivati con le valigie

*10 ottobre, Roma*

Avevo appena finito di sistemare i vasi di gerani sul davanzale quando squillò il telefono. La voce di mia figlia arrivò dall’altra parte, allegra e spensierata, mentre io stringevo la cornetta con le dita che mi tremavano.

“Papà, siamo in viaggio! Arriviamo domani con i bagagli!”

“Ma sei pazza, Ginevra?” esclamai, sentendo il cuore accelerare. “Dove vuoi che metta le valigie? Ho un monolocale, capisci? Un monolocale! E voi sarete in tre!”

“Papà, non urlare! Solo per una settimana, il tempo di trovare un affitto. Michele ha già un colloquio a Milano…”

Una settimana. Respirai a fondo, guardandomi attorno. Il mio piccolo appartamento in periferia, con il divano-letto che cigolava, la cucina stretta e il frigorifero che faceva le bizze. E poi Ciro, il mio gatto bianco e nero, che mi fissava come se avesse capito tutto.

“Ginevra, non avete pensato a un hotel? Sono un pensionato, ho solo la minima…”

“Papà, ti prego! Con i soldi dei biglietti abbiamo finito il budget. Siamo già sul treno, domani mattina siamo lì. Libera un po’ di spazio, va bene?”

Il click della cornetta mi lasciò solo con i miei dubbi. Roma era costosa, e Michele, mio genero, parlava di opportunità, di stipendi migliori. Ma intanto? Nella mia casa, già piena di ricordi—le foto di nonna Lucia, i libri riletti cento volte, i soprammobili regalati da Ginevra quando era ancora una ragazzina.

Bussai alla porta della vicina, la signora Eleonora, per chiederle di tenere alcune scatole in cantina.

“Ah, i figli tornano a casa?” chiese, con quel sorriso sapiente.

“Temporaneamente.”

Lei annuì, strizzando gli occhi. “Temporaneo… come il dentista che dice ‘non sente nulla’.”

La mattina dopo, alle sei e mezzo, bussarono alla porta. Ginevra abbracciandomi come se avessi novant’anni, Michele imbarazzato con le valigie, e tra loro… Beatrice, la mia nipotina di quattro anni, con quelle treccine bionde e gli occhi curiosi.

“Nonno! Posso dare da mangiare al gatto?”

Sorrisi, ma già sentivo la stanza stringersi. Il divano diventò un letto matrimoniale, il mio unico tavolo ingombro di tablet e biberon. A colazione, scoprii che Beatrice beveva solo latte fresco—e a Roma costava il doppio che a Napoli.

“Papà, hai internet?” chiese Ginevra.

“Per cosa?”

“Michele deve mandare curriculum!”

“C’è il bar all’angolo con il Wi-Fi,” mormorai.

I giorni passarono. Lavoravano, io badavo a Beatrice. Mi piaceva, ma… la sera, quando rientravano, parlavano di “piano a lungo termine”. “Milano è meglio, ma intanto…” Intanto ero io a pagare il pediatra quando Be si ammalò, a sopportare i commenti di Eleonora: “Marcello, ti stanno mangiando la pensione!”

Una notte, li sentii sussurrare: “È comodo così. Lei cucina, noi risparmiamo.”

Il mattino dopo, a colazione, Beatrice mi guardò seria: “Nonno, perché dormi sulla poltrona? Tu sei vecchio, devi stare a letto!”

Fu la goccia.

Quella sera, li chiamai in cucina. “Vi amo, ma questa casa è mia. Cercate un’altra sistemazione.”

Ci volle una settimana. Trovare una stanza in periferia. Il giorno del trasloco, Be mi strinse forte: “Nonno, Ciro ti protegge.”

Ora sono di nuovo qui, con il gatto acciambellato accanto, il silenzio, i miei libri tornati sullo scaffale.

A volte la famiglia è come il caffè: se lo allunghi troppo, perde tutto il sapore.

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