Aspettami ancora

Aspettami

Domenico scese dal treno e respirò a fondo. L’aria della sua città natale aveva un profumo unico, diverso da qualsiasi altro posto al mondo. Eppure ne aveva viste di città, in giro per l’Europa e oltre. Ma il cuore lo riportava sempre lì.

Camminò per le strade che conosceva da sempre, notando ogni minimo cambiamento. Ed ecco il suo cortile, racchiuso tra quattro palazzi di mattoni rossi: due lunghi, con cinque portoni ciascuno, e due più corti, con solo due ingressi. Il cortile era spazioso, diviso a metà: da una parte c’era un parco giochi con uno scivolo colorato, una sabbionaia e qualche sbarra per allenarsi. Una volta c’erano anche le altalene e una cupola di metallo che tutti chiamavano “la ragnatela”. Domenico aveva ancora una cicatrice sopra il sopracciglio per colpa di quella maledetta ragnatela.

L’altra metà del cortile era occupata da un campo da calcio recintato, con le porte e un canestro da basket. D’inverno lo allagavano per farci il pattinaggio. Era ancora mattina presto, e il cortile era deserto. Se solo ci fosse stato un pallone, Domenico l’avrebbe lanciato dritto in porta, come faceva da ragazzino.

Che tempi felici! Sergio se n’era andato chissà dove, in Germania, si era sposato e aveva due figli. Gianni, invece, era già al suo secondo giro in carcere. La vita li aveva sparpagliati in direzioni opposte.

Dall’ingresso del palazzo uscì un uomo con un cane, e Domenico gli gridò di non chiudere la porta. La lampadina fioca nella tromba delle scale era più decorativa che utile. Ci volle qualche secondo perché i suoi occhi si abituassero alla penombra. Per anni avevano provato a mettere lampadine più potenti, ma qualcuno le sostituiva sempre con quelle più deboli. Era sempre stato così. Un miracolo che nessuno si fosse mai rotto qualcosa in quelle scale strette e buie.

Salì al secondo piano e si fermò davanti alla porta di metallo a destra. Una volta lì viveva Valentina. Non Vale, non Valentina… solo Valentina. Così voleva essere chiamata. Il suo primo amore, disperato e non corrisposto.

Da ragazzino, spesso suonava il campanello e scappava di sopra, al terzo piano, dove abitava lui. E lì aspettava che Valentina aprisse la porta. Gli venne in mente di rifarlo, ma ormai non era più così veloce sulle scale. E poi, un uomo adulto non poteva permettersi certi giochi. Inoltre, non era nemmeno sicuro che vivesse ancora lì.

Sbuffò e continuò a salire fino al terzo piano. La porta di casa sua era lì, identica a sempre. Ad aprirgli era sempre stata la mamma, anche quando il padre era vivo. Era morto due anni prima. Domenico era in viaggio, non aveva potuto essere ai funerali.

Premette il campanello. Dopo un attimo, la serratura scattò e la porta si aprì di un pelo. Non appena lo vide, la mamma spalancò la porta e gli si gettò addosso.

“Figlio mio!” Si abbracciarono lì, sull’uscio. Poi lei si tirò indietro. “Fammi guardare.” E poi lo strinse di nuovo.

Quando il marito era vivo, si tingeva i capelli e li sistemava con cura. Adesso, invece, una larga striscia bianca le attraversava la riga.

“Mi sei apparso in sogno l’altra notte. Sapevo che saresti tornato. Per quanto? Oh, ma cosa stiamo a fare qui… Entra.” Lo abbracciò di nuovo prima di richiudere la porta.

Passarono i primi momenti di gioia. Domenico si tolse le scarpe e infilò le sue pantofole, sempre lì ad aspettarlo. Quelle del padre, invece, la mamma le aveva messe via.

“Ecco, per te.” Le porse un sacchetto con i regali.

“Sei tu il regalo più bello,” disse lei, anche se diede un’occhiata al sacchetto. “Faccio subito il caffè. O vuoi mangiare qualcosa?” Cominciò a trafficare in cucina, preparando il tavolo.

“Che testa vuota. Ho dimenticato il pane. Vado subito a comprarlo…” Si fermò a metà cucina, battendo le palpebre. “Ma i negozi sono ancora chiusi.”

“Tranquilla. Ci vado io più tardi. Siediti,” la calmò Domenico.

La cucina gli sembrò minuscola. La sua cabina sulla nave era più spaziosa. Come faceva la mamma a tenere tutto in ordine?

“Come stai?” Le accarezzò la mano nodosa.

“Me la cavo. E tu? Ancora non ti sei sposato?” I suoi occhi si fecero tristi.

“Non tutte le donne sono disposte ad aspettare un marinaio per sei mesi.”

Dopo colazione, la mamma si mise a preparare il suo minestrone preferito, mentre Domenico uscì a comprare il pane. Scendendo le scale, si fermò un attimo davanti alla porta di Valentina.

Ci vollero alcuni giorni prima che finalmente premesse il campanello. La serratura scattò e la porta si aprì di un palmo. Domenico la vide. Il cuore gli balzò nel petto come se volesse saltarle incontro. Era quasi uguale, un po’ più formosa, ma le donava.

“Cerca qualcuno?” gli chiese, percorrendolo con lo sguardo.

“Scusi,” fece Domenico, arretrando verso la salvezza delle scale.

“Domenico? Sei tu, vero?” la sua voce lo fermò.

«Mi ha riconosciuto!» il cuore gli sobbalzò di gioia.

***

“Hai fatto gol! Per colpa tua abbiamo perso!” strillava Sergio, col naso che colava e la voce in falsetto.

“Che vuoi che sia? Ci rifaremo la prossima volta,” cercò di calmarlo Domenico, sentendosi in colpa.

“Sì, come no!” sbuffò Sergio, voltandogli le spalle. “Se non sai giocare, non giocare.”

“Chi è che non sa giocare? Sei tu che hai lasciato passare Leo!” “Sergio, aspetta!” Domenico lo raggiunse e gli afferrò un braccio.

“Lasciami!” Sergio si liberò e gli diede una spinta.

“Lasciami tu!” ribatté Domenico, spingendolo a sua volta.
Per qualche secondo si presero a spinte, poi si aggrapparono l’uno all’altro, rotolando sull’erba.

“Basta così!” una voce di ragazza squillò sopra di loro.

I due smisero di picchiarsi e fissarono la bella ragazza. Ancora ansimanti, si rialzarono. Sergio si scrollò di dosso l’erba e se ne andò. Domenico rimase lì, a guardarla. Poi la seguì. Davanti al portone, lei si voltò.

“Perché mi segui?”

“Non ti seguo, torno a casa anch’io.”

“Quindi abitiamo nello stesso palazzo? Che figura. Ti sei strappato la maglietta.”

“Dove?” Domenico si tirò su il bordo della maglietta.

“Dai, vieni su, te la rammendo.”

Salirono al secondo piano e lei aprì la porta di casa.

“Qui non abitava una vecchietta? Sei sua nipote?” chiese Domenico.

“Nipote un corno. È morta. Adesso abito io qui. Togliti le scarpe e la maglietta,” ordinò.

Domenico obbedì, rimanendo solo con i jeans. Per fortuna si era strappato la maglietta e non i pantaloni, pensò.

Lei lo guardò con interesse.

“Quanti anni hai, campione?”

“Quattordici,” rispose lui con voce roca.

“”Ti aspetterò,” sussurrò Valentina, e in quel momento Domenico capì che finalmente, dopo tutti quegli anni, il suo cuore aveva trovato casa.

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