Aspettami
Lorenzo scese dal treno e respirò a fondo. Nella sua città natale l’aria era diversa, come in nessun altro posto al mondo. Ed era stato in tanti luoghi, ma il cuore lo riportava sempre lì.
Camminò per le strade che conosceva da sempre, notando ogni piccolo cambiamento. Eccolo, il suo cortile, racchiuso tra quattro palazzi di mattoni rossi: due lunghi con cinque ingressi e due più corti con due portoni. Il cortile era spazioso, diviso tra una zona giochi con uno scivolo colorato, una sabbiera e qualche sbarra per esercizi. Una volta c’erano anche le altalene e una struttura metallica a semisfera che chiamavano “ragnatela”. Cadendoci, Lorenzo si era fatto una cicatrice sopra il sopracciglio.
L’altra metà del cortile era occupata da un campo da calcio recintato, con le porte e un canestro. D’inverno lo allagavano per farci il pattinaggio. Quel mattino presto non c’era nessuno. Se avesse avuto un pallone, Lorenzo lo avrebbe tirato in porta come faceva da ragazzo.
Bei tempi. Enrico se n’era andato chissà dove, in Lombardia, si era sposato e aveva due figli. E Marco era già alla sua seconda condanna in carcere. La vita li aveva sparpagliati in direzioni opposte.
Un uomo uscì dal portone con un cane, e Lorenzo gli gridò di non chiudere la porta. La lampadina fioca serviva a poco. Dovette aspettare qualche secondo perché i suoi occhi si abituassero alla penombra. Due gradini alla volta, salì fino al secondo piano e si fermò davanti alla porta di ferro a destra. Una volta ci viveva Valentina. Non Vale né Tina, ma Valentina. Così voleva essere chiamata. Il suo primo amore, disperato e non corrisposto.
Un tempo suonava il campanello e correva su, al terzo piano, dove aspettava che lei aprisse. Gli venne in mente di rifarlo, ma ormai non scattava più come un ragazzino. E poi, non era più il caso. Inoltre, non era sicuro che vivesse ancora lì.
Sorrise e salì al terzo piano, davanti alla porta di casa. Ad aprirgli era sempre la mamma, anche quando c’era ancora suo padre. Era morto due anni prima. Lorenzo era in viaggio e non aveva potuto essere ai funerali.
Premette il campanello. Il chiavistello scattò e la porta si aprì di un poco. Vedendolo, la mamma la spalancò e gli si fece incontro.
“Figlio mio!” Lo abbracciarono lì, sulla soglia. Poi lo tenne a distanza. “Fammiti vedere.” E poi di nuovo tra le braccia.
Quando c’era suo padre, si tingeva i capelli e li pettinava con cura. Ora, sulla riga, una larga striscia argentata.
“Mi sei apparso in sogno ieri! Sapevo che saresti venuto. Per quanto? Oh, siamo ancora qui… entra.” Chiuse la porta e lo strinse di nuovo.
Passarono i primi momenti di gioia. Lorenzo si tolse le scarpe e infilò le sue pantofole, sempre lì ad aspettarlo. Quelle del padre, invece, la mamma le aveva messe via.
“Questo è per te, mamma.” Le porse un sacchetto con i regali.
“Tu sei il regalo più bello,” disse lei, ma ci diede comunque un’occhiata. “Faccio subito il caffè. Hai fame?” Cominciò a muoversi in cucina, preparando la tavola.
“Che testa! Ho dimenticato di comprare il pane. Vado un attimo…” Si fermò in mezzo alla stanza, sbattendo le palpebre. “Ma i negozi sono ancora chiusi.”
“Non importa. Ci vado io più tardi. Siediti,” la tranquillizzò lui.
La cucina sembrava minuscola. La cabina sulla nave era più grande. Come faceva la mamma a tenerla così in ordine?
“Come stai?” Le accarezzò la mano callosa.
“Piano piano. E tu? Ancora non sposato?” I suoi occhi si velarono di tristezza.
“Non tutte sono disposte ad aspettare un marinaio per sei mesi.”
Dopo colazione, la mamma si mise a preparare la sua minestra preferita e Lorenzo uscì per il pane. Scendendo le scale, si fermò un attimo davanti alla porta di Valentina.
Ci vollero alcuni giorni prima che suonasse. Il chiavistello scattò e la porta si aprì di un poco. Lorenzo la vide. Il cuore gli balzò nel petto come se volesse precipitarsi verso di lei. Non era cambiata molto, un po’ più in carne, ma le donava.
“Che c’è?” chiese Valentina, scorrendolo con lo sguardo.
“Scusi,” fece per retrocedere verso le scale.
“Lorenzo? Sei tu Lorenzo?” lo fermò la sua voce.
“Mi ha riconosciuto!” gioì dentro di sé.
***
“Sei tu che hai sbagliato il passaggio! Abbiamo perso per colpa tua!” strillava Enrico, il naso che colava, la voce rotta dalla rabbia.
“E allora? Ci rifaremo la prossima volta,” cercò di calmarlo Lollo, sentendosi in colpa.
“Certo, come no!” sbottò Enrico, allontanandosi. “Se non sai giocare, non ti impicciare.”
“Io non so giocare? Sei tu che hai lasciato passare Paolo!” gli gridò dietro. “Enri’, aspetta!” Lo raggiunse e gli afferrò un braccio.
“Lascia perdere!” Enrico si liberò e lo spinse.
“Lascia perdere tu!” Lollo ricambiò.
Per qualche secondo si diedero spintoni, poi si aggrapparono l’uno all’altro, rotolarono sull’erba.
“Basta così!” una voce femminile li interruppe.
Si fermarono e alzarono lo sguardo verso una ragazza bellissima. Ancora ansimanti, si rialzarono. Enrico si scrollò di dosso l’erba e se ne andò. Lollo invece rimase lì, a guardarla. Poi le si mise dietro. Davanti al portone, lei si voltò.
“Perché mi segui?”
“Non ti seguo, vado a casa anch’io.”
“Quindi abitiamo nello stesso palazzo? Che aspetto… ti sei strappato la maglietta.”
“Dove?” Lollo si esaminò la pancia.
“Dai, vieni su, te la rammendo.”
Salirono al secondo piano e lei aprì la porta.
“Qui non abitava una signora anziana? Sei sua nipote?” chiese Lollo.
“Nipote tu. È morta. Ora ci vivo io. Togliti le scarpe e la maglia,” ordinò.
Lollo obbedì, rimanendo in jeans. Per fortuna si era strappato la maglia e non i pantaloni.
Lei lo osservò con interesse.
“Quanti anni hai, calciatore?”
“Quattordici,” rispose lui con voce strozzata.
“Per la tua età, sei ben messo. Diventerai un bell’uomo.”
Lollo arrossì per quel complimento.
“Che fai, resti lì? Vai in bagno.” Accese la luce. Lui si lavò le mani, osservando l’accappatoio rosa appeso alla porta. Lo sfiorò con le dita, liscio come la pelle.
Lei era seduta sulla poltrona, rammendando la maglietta. Sentendosi osservata, sollevò lo sguardo.
“Che aspetti? Metti su l’acqua per il caffè.”
Lollo obbedì, trovando la cucina stretta come la sua. Accese il gas.
“Ecco, mettitela.” Lei entrò e gli porse la maglia.
“Grazie. Sei qui da sola?”
“Perché, vuoi rapinarmi? Prendi le tazze, furbo.”
Tornò con una scatola di ciocLorenzo le prese la mano e sussurrò: “Aspettami, tornerò per te,” mentre il sole del tramonto tingeva di rosso i vetri delle finestre, promettendo che il loro amore avrebbe trovato la strada, nonostante il tempo e la distanza.