**Aspettami**
Mi appoggiai alla ruvida parete fresca, chiudendo gli occhi. Sembrava che non mi sarei mosso mai più. Ma dopo qualche minuto mi costrinsi a staccarmi dal muro e raggiungere la sala medici.
Qualche ora dopo, uscii dai cancelli del complesso ospedaliero. Dopo due tazze di caffè forte, la stanchezza finalmente si era allentata. Proprio davanti ai cancelli si apriva un piccolo viale alberato, che terminava su una strada trafficata. I raggi del sole filtravano tra le foglie, disegnando sul selciato un motivo tremulo e vivo. Non ricordavo di aver mai percorso quel viale: di solito andavo in ospedale in macchina. Ma quella volta, improvvisamente, mi venne voglia di camminare su quel tappeto di luci danzanti, strizzando gli occhi contro il sole. Tanto a casa nessuno mi aspettava.
Camminavo lentamente, godendomi il sole e le note ormai scomparse delle tempeste di pioppi. L’estate aveva superato l’equatore e presto sarebbe arrivata la vacanza. Quel giorno avevo vinto, strappato un altro paziente dalla strella della morte.
Su una panchina sedeva una ragazza giovane, vestita di un abito chiaro. Era china su un libro, e una ciocca di capelli rossi le nascondeva il viso. Per qualche ragione, sentii un desiderio improvviso di vederla in viso. Arrivai alla panchina e mi fermai.
Lei girò la pagina e continuò a leggere, senza accorgersi di me.
“È interessante quel libro?” le chiesi.
La ragazza continuò a leggere ancora per un po’, poi lo chiuse, tenendo il segno con un dito perché potessi vedere la copertina.
*”Caro mio uomo”*, lessi, capovolgendo il titolo.
Alzò lo sguardo. Il suo viso era cosparso di lentiggini, che però non la rendevano meno affascinante, anzi, le donavano un’aria vivace e irresistibile. Occhi neri espressivi, labbra carnose. Fresca e dolce. *”D’oro”*, pensai, fissando i suoi capelli che brillavano al sole.
“Ti interessa la medicina, o ti piace semplicemente l’autore?” le domandai.
“Ho appena inviato i documenti per la facoltà di medicina.”
“Allora siamo quasi colleghi.” Sorrisi approvando e mi sedetti accanto a lei.
“Tu sei un medico?” I suoi occhi neri si illuminarono.
“Un chirurgo.”
“Tu?” chiese, incredula.
“Cosa ti sorprende? Non ci assomiglio? O secondo te i chirurghi devono essere tutti grigi e taciturni?”
Le sue labbra si aprirono in un sorriso.
“Che tipo di chirurgo?”
“Lodevole che tu conosca le sfumature della professione. Vorrei poter dire che faccio chirurgia plastica. Sembra più prestigioso e romantico. Purtroppo, sono un chirurgo normale. Qualcuno deve pur togliere appendici e calcoli alla cistifellea.”
Lei rise. Aveva una risata melodiosa, piacevole.
Per qualche motivo, mi venne voglia di farmi bello davanti a lei, di mostrarmi come un chirurgo esperto e navigato. E così cominciai a raccontarle che la routine della professione non aveva nulla della romanticheria descritta nei libri. La responsabilità era enorme. Nelle mani di un chirurgo c’è la vita di un uomo, e il tavolo operatorio è un campo di battaglia, con la sua tattica e strategia. Accennai anche al caso di quel giorno, decorando il racconto con riflessioni sulla moglie e i figli del paziente, che avevano atteso l’esito dell’intervento in ansia.
Inizialmente mi guardò con diffidenza, poi con ammirazione scoperta. E sotto il suo sguardo mi sentii quasi un eroe, un arbitro del destino dei pazienti. Sapevo di esagerare, ma non potevo farne a meno. Avevo così tanto bisogno di piacerle.
“Hai salvato la vita a un uomo e ne parli con tanta semplicità?” mi chiese seria.
“Succede ogni giorno. Ogni operazione è un rischio. Un caso apparentemente banale può trasformarsi in tragedia.” Poi, a mia volta: “Tu che medico vorresti diventare?”
“Non ho ancora deciso. Prima devo essere ammessa.” Gettò un’occhiata all’orologio al polso e balzò in piedi.
“Oh, sono in ritardo.” Negli occhi le danzò la paura.
“Davanti all’ospedale c’è la mia macchina.” Anche io mi alzai. “Vieni, ti accompagno dove vuoi.”
Lungo la strada verso casa, mi raccontò che viveva con la zia Antonia, sorella di sua madre. Avevano un cane, un vecchio spaniel di nome Vermouth. Glielo aveva chiamato così il marito della zia, quando ancora era vivo. La zia aveva problemi alle gambe, quindi toccava a lei, Chiara, portare a spasso Vermouth. E lui era anziano, non poteva trattenerla, se non lo faceva uscire in tempo, sarebbe stato un disastro. A lei sarebbe toccato pulire.
“È cattiva?” chiesi.
“Zia Antonia? No, assolutamente. È gentilissima. Mi ha preso con sé nonostante abbia problemi alle gambe e la pressione alta.”
“Da dove sei venuta per iscriverti all’università?”
“Ho sempre vissuto qui. Quando ero in quinta elementare, mia mamma è morta. Le faceva male la pancia da giorni, ma rimandava sempre la visita. Tornai da scuola e la trovai svenuta per terra. Chiamai l’ambulanza. Aveva un’appendicite perforata e peritonite. Mio padre, dopo la sua morte, cadde nell’alcol. Per caso o volontà, finì sotto le ruote di un autobus. Così vivo con zia Antonia.”
Chiara scese dalla macchina e corse verso il portone. Sulla soglia si voltò. Le feci un cenno d’addio, e un attimo dopo scomparve dietro la porta.
Rimasto solo in macchina, smisi immediatamente di sentirmi un eroe, tornando ad essere un chirurgo stanco e solo. Mi dispiaceva per lei. Una brava ragazza, determinata, con le idee chiare. Giovanissima e già con tante prove alle spalle.
Un mese dopo, tornato dalle vacanze, percorrevo il corridoio del reparto. Una giovane inserviente stava lavando il pavimento. Una ciocca rossa le sfuggiva dal copricapo. Qualcosa in lei mi sembrò familiare. Un ricordo che mi fece fermare. Una paziente? La figlia di qualcuno?
La ragazza alzò lo sguardo.
“Tu? Ciao.” Nei suoi occhi neri balenarono gioia ed entusiasmo. La ricordavo, anche se il nome mi sfuggiva.
“Ciao. Non dovevi iscriverti all’università, invece di lavorare?” le chiesi, passando senza motivo al “tu”. “O hai qualche parente qui?” Ricordai che le mancava qualcuno dei genitori.
“Mi sono iscritta. Ho voluto lavorare un po’ prima dell’inizio delle lezioni,” rispose semplicemente.
“Giusto. La medicina va conosciuta dall’interno. Magari vedi com’è davvero e cambi idea sul diventare medico. E quale, poi? Non vorrai mica fare la chirurga?”
“Vedremo.” Scrollò le spalle, e allora ricordai il suo nome. Chiara.
“Contento di rivederti.” Ripresi a camminare per il corridoio, sicuro che mi stesse guardando andare via. Il mio passo si fece più elastico, quasi sbarazzino.
Ogni volta che attraversavo il reparto, speravo di incrociare la ragazza dai capelli rossi. E quando la vedevo, mi fermavo sempre a scambiare due parole.Eppure, mentre attraversavo il giardino dell’ospedale quella sera, mi resi conto che alcune ferite non possono essere suturate con il filo, ma solo con il tempo.