Aspettative Mattutine: La Figlia e la Sua Famiglia in Visita per una Settimana di Festa.

Serafino Egorovich era in attesa della festa fin dal mattino. Ieri era arrivata sua figlia con la famiglia, con la propria macchina, a far visita per una settimana nella città natale sul mare. Si sono fermati dal fratello, il figlio di Serafino, perché lui vive in un piccolo appartamento di una stanza, ereditato quando sua moglie era ancora viva. Ieri la figlia aveva fatto visita al padre; si erano abbracciati, lei gli aveva dato un bacio sulla guancia, chiesto della sua salute e poi era corsa ad un appuntamento con le amiche. Oggi le famiglie del figlio e della figlia avevano pianificato una gita al mare. Avevano deciso di andare con due macchine e avevano avvisato il padre di essere pronto per le otto del mattino, per passare a prenderlo. La gioia di trascorrere del tempo con figli e nipoti lo rallegrava. Già il giorno prima aveva iniziato i preparativi: aveva comprato delle ciabatte di gomma, una nuova maglietta con una scritta straniera e dei pantaloncini. Non erano costosi, ma almeno erano nuovi. Aveva fatto qualche sacrificio, ma avrebbe tirato avanti fino alla pensione. Non era un evento di ogni giorno!

Fin dal primo mattino si era sistemato e si era seduto su una poltrona, di fronte all’orologio a muro, aspettando. Il tempo sembrava non passare mai. Ascoltava i rumori dalla finestra – sarebbe arrivata la macchina? L’attesa fu interrotta da una telefonata. Era suo figlio.

– Papà, – disse con voce colpevole. – È successo un imprevisto: non possiamo passarti a prendere, non c’è abbastanza spazio in macchina. I bagagliai sono pieni, siamo già stretti noi.

Serafino rimase in silenzio, sentendo la gioia svanire e il posto essere preso da un’amara delusione. Ma, riprendendosi, rispose:

– Non preoccuparti, figliolo, andate pure senza di me, – e, per sollevare il figlio dal senso di colpa, aggiunse: – pensavo di rinunciare anche io, non mi sento proprio bene…

– Bene, allora! – esclamò il figlio, senza chiedere un motivo per il malessere del padre. – Allora andiamo…

Non cambiandosi nemmeno, Serafino rimase seduto sulla poltrona, fissando il vuoto. Pensieri malinconici giravano per la testa:

– Ecco qua. Una volta ero necessario, non potevano vivere un giorno senza di me. Ora non hanno tempo per me. A cosa serve un vecchio padre? I vecchi, non servono a nessuno…

Una cosa positiva era che il figlio e la figlia non si dimenticavano l’un l’altra. Aveva spiegato loro da piccoli che fratello e sorella sono le persone più vicine al mondo. Più della moglie e il marito, che in fondo sono estranei, e ancor di più della restante parentela. Fratello e sorella sono figli dello stesso padre e madre, stessa sangue, stessi antenati. Hanno capito bene. E da piccoli si proteggevano e anche ora non si dimenticano.

– Va bene, – sospirò Serafino. – Di cosa dovrei offendersi? Forse davvero non c’era spazio? Non si poteva far scendere i bambini. – Cacciò via il pensiero che il figlio avrebbe potuto fare un altro viaggio – un’ora di macchina fino al mare. Ma il pensiero ritornava, sollevando il sedimento di amarezza dal fondo dell’anima.

– Ma c’è un rimorchio, in cui spostare le cose, – non avrebbero dovuto stare stretti. Magari sarebbe stato possibile trovarmi un posto. Ma queste sono complicazioni inutili: attaccare un rimorchio, caricarlo. Evidentemente, non merito tali preoccupazioni…

Il sole fuori scaldava. Serafino chiuse la porta del balcone e tirò la tenda pesante, proteggendosi dal caldo diurno.

– Quando finirà questo caldo? Magari piovesse, migliorerebbe le cose. Ma al mare ora si sta bene, l’acqua porta freschezza, e il vento è fresco… Magari dovrei andare in panchina, lì c’è ombra. Respirare un po’ d’aria fresca.

Si alzò pesantemente, allungò le gambe intorpidite e si diresse verso l’uscita.

Sulla panchina era già seduta la vicina Petronilla, un’amica della defunta moglie di Serafino, dal primo piano.

– Ciao, Petronilla, – la salutò lui. – Passeggiata seduta?

– Ciao, Egorio, – sorrise la vicina. – Oggi sembri pronto per la spiaggia, manca solo il cappello di paglia. – Sorridendo, lesse la scritta sulla maglietta nuova. – Sai che significa?

– Non ne ho idea, – rispose lui. – È comoda, leggera, e basta!

– Voglio fare l’amore, – lesse lei. – È scritto così!

– Chi? – si sorprese lui.

– Tu! – rise Petronilla. – È scritto sulla tua maglietta!

– Mannaggia! – Serafino si indignò. – Meno male che i bambini non l’hanno vista! La metterò via.

Risero. L’umore del vecchio si risollevò un po’.

– Da tanto qui? – chiese. Non che gli importasse saperlo. Era solo per fare conversazione.

– Sono uscita a dar da mangiare al Vagabondo e al gattini, – indicò con la testa verso il cespuglio di lillà. Sotto il cespuglio, all’ombra, dormiva un vecchio gatto.

Gli inquilini del palazzo rispettavano il gatto, una volta di casa, ma per strane vicende della vita diventato randagio. Era discreto, ordinato e trattava bene i suoi simili che vivevano negli appartamenti. Lo chiamavano Vagabondo e lo nutrivano. Passava l’inverno in cantina, fortunatamente erano inverni miti lì. Un mese fa erano apparsi due piccoli gattini, non si sa da dove – forse li aveva trovati orfani, o forse qualcuno degli inquilini glieli aveva lasciati. Si prese cura di loro con sorprendente responsabilità. Li proteggeva dai cani randagi, li portava a passeggio, insegnava l’arte di vivere per strada. Cominciava a mangiare solo quando i gattini erano sazi.

– Vagabondo è qui, e i gattini?

– Li hanno presi oggi, – sospirò Petronilla. – Brave persone, della casa accanto.

– E lui, lasciato qui?

– A chi serve, è vecchio? Volevo prenderlo in casa, almeno per gli anni che restano viverli come si conviene. Ma la mia Matilde mi ha fatto una scena! Ha vissuto con me per tutta la vita, la mia amata e unica gatta! Sopporterebbe un estraneo in casa? Mi ha fatto la faccia per un’intera settimana.

– Già. – Abbassò la testa Serafino. – Gli anziani non servono a nessuno. – E fu colto ancora una volta da una ondata di amarezza. Anche se – di cosa mai si va arrabbiando? C’è chi sta peggio. Come il vecchio gatto, che non ha mai fatto male a nessuno. Una volta era un bravo gatto domestico, probabilmente amava i bambini, rallegrava i padroni. Ora guarda con invidia i suoi simili domestici, ricordando una vita passata e felice. Comprende di non servire più a nessuno. Era utile ai gattini, e quelli li hanno portati via.

– Vagabondo, – lo chiamò. – Vieni da me. Anche se ci resta solo la coda della vita, è meglio viverla sapendo che c’è chi si prende cura di te.

Il gatto, come se non si fidasse di lui, lo guardò con aria triste e poi si girò. Serafino lo prese delicatamente in braccio, lo strinse a sé e iniziò a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Il corpo del gatto si rilassò, si strinse al vecchio, chiuse gli occhi e cominciò a fare le fusa come un gattino.

– Va bene, Vagabondo, – sussurrava Serafino, accarezzandolo, – anche se, quale Vagabondo? Ora sei un vero gatto di casa. Andiamo a casa. Ti mancano le comodità?

– Sporcherai quella maglietta, Egorio! – scuoteva la testa Petronilla.

– Dannata maglietta…

Intanto il telefono in casa squillava con insistenza. Tenne in braccio Vagabondo e rispose.

– Papà! Papà, che succede?! – piangeva la figlia al telefono. – Ti chiamo e tu non rispondi! Ho pensato che…

– Va tutto bene, cara, – la rassicurò Serafino. – Ero fuori sulla panchina, ho lasciato il telefono a casa.

– Ci siamo preoccupati così tanto! Ho mandato mio marito a prenderti, – raccontò ancora singhiozzando la figlia. – Dovrebbe arrivare presto. Aspettiamo te, preparati.

– Va bene, solo che mi cambio la maglietta. Con me viene anche il gatto. È il mio gatto domestico! – dimenticando l’amarezza verso i figli.

– Anche tutti i gatti della città! – ora rideva la figlia. – Ma vieni, papà!

– Allora, Vagabondo! – Serafino chiuse il telefono. – A quanto pare serviamo ancora a qualcuno!

Vagabondo fece l’occhiolino d’intesa e… Sorrise!

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