**BAMBINA SUI BINARI: 25 ANNI DOPO, IL PASSATO BUSSA ALLA PORTA**
Mi trovavo a metà strada verso la stazione quando un suono leggero spezzò il silenzio. Il vento gelido di febbraio mi sferzava il volto, trascinando con sé un flebile piantoquasi soffocato dal rumore della tempesta.
Il suono proveniva dai binari. Mi avvicinai con cautela alla vecchia cabina del deviatoio, quasi sepolta dalla neve. Accanto alle rotaie, un fagotto scuro.
“Madonna santa…” sussurrai, il cuore in gola.
Mi inginocchiai e lo sollevai. Una bambina. Non più di un anno, forse meno. Le labbra viola per il freddo, il pianto così debole che sembrava non avesse nemmeno la forza di avere paura.
La strinsi al petto, aprendo il cappotto per scaldarla, e corsi verso il paese. Da Sofia Marchetti, lunica infermiera del posto.
“Giovanni, ma che diavolo?” Sofia fissò il fagotto tra le mie braccia, senza fiato.
“Lho trovata sui binari. Stava morendo assiderata.”
Sofia prese la bambina con delicatezza, controllandola. “È ipotermica… ma viva. Grazie a Dio.”
“Dobbiamo chiamare i carabinieri,” aggiunse, allungando la mano verso il telefono.
La fermai. “La manderanno in un orfanotrofio. Non sopravviverebbe al viaggio.”
Sofia esitò, poi aprì un armadio. “Ecco. Ho del latte in polvere della mia nipotina. Basta per ora. Ma Giovanni… cosa hai in mente?”
Guardai quel visino che si stringeva al mio maglione, il suo respiro caldo sulla mia pelle. Aveva smesso di piangere.
“La crescerò io,” dissi piano. “Non cè altra scelta.”
Le chiacchiere iniziarono quasi subito.
“Ha trentacinque anni, single, vive da soloe adesso raccoglie neonati abbandonati?”
Che parlassero. Le maldicenze non mi hanno mai interessato. Con laiuto di alcuni amici in comune, sistemai le carte. Non cerano parenti. Nessuno aveva denunciato una scomparsa.
La chiamai Beatrice.
Il primo anno fu il più duro. Notti insonni. Febbre. Dentini. La cullavo, cantavo ninne nanne che a malapena ricordavo dalla mia infanzia.
“Mamma!” disse una mattina, a dieci mesi, tendendomi le manine.
Le lacrime mi rigarono il viso. Dopo anni di solitudinesolo io e la mia casettaero finalmente il padre di qualcuno.
A due anni era un terremoto. Inseguiva il gatto, tirava le tende, voleva sapere tutto. A tre riconosceva ogni lettera nei suoi libri illustrati. A quattro inventava storie intere.
“È un genio,” disse la mia vicina, Maria, scuotendo la testa incredula. “Non so come fai.”
“Non sono io,” sorrisi. “Lei è fatta per brillare.”
A cinque anni organizzai passaggi per portarla allasilo nel paese vicino. Le maestre erano sbalordite.
“Legge meglio dei bambini di sette anni,” mi dissero.
Quando iniziò la scuola, portava lunghe trecce castane con fiocchi coordinati. Gliele facevo ogni mattina. Non mancavo a un colloquio. Le maestre la lodavano senza sosta.
“Signor Rossi,” mi disse uninsegnante, “Beatrice è il tipo di alunna che sogneremmo tutti. Arriverà lontano.”
Il mio cuore si gonfiò di orgoglio. Mia figlia.
Divenne una giovane donna elegante e bellissima. Sicura di sé, con occhi azzurri pieni di determinazione. Vinceva concorsi di grammatica, olimpiadi di matematica, persino fiere scientifiche. Tutti nel paese la conoscevano.
Poi, una sera al liceo, tornò a casa e disse: “Papà, voglio fare la dottoressa.”
Sbattéi le palpebre. “È meraviglioso, tesoro. Ma come pagheremo luniversità? Laffitto in città? Il cibo?”
“Prenderò una borsa di studio,” disse, gli occhi luminosi. “Troverò un modo. Promesso.”
E ci riuscì.
Quando arrivò la lettera di ammissione alla facoltà di medicina, piansi per due giorni. Lacrime di gioia e paura. Mi lasciava per la prima volta.
“Non piangere, papà,” mi disse alla stazione, stringendomi la mano. “Tornerò ogni weekend.”
Naturalmente, non fu così. La città la inghiottì. Lezioni, laboratori, esami. Allinizio tornava una volta al mese. Poi ogni due, tre. Ma mi chiamava ogni sera, senza eccezioni.
“Papà! Ho passato anatomia con il massimo dei voti!”
“Papà! Oggi abbiamo assistito a un parto in clinica!”
Ogni volta sorridevo e ascoltavo le sue storie.
Al terzo anno, la sua voce era elettrica.
“Ho conosciuto qualcuno,” disse timidamente.
Si chiamava Luca. Un compagno di studi. Venne con lei a Natalealto, educato, con uno sguardo gentile e una voce calma. Ringraziò per il cena e sparecchiò senza che glielo chiedessi.
“Bel colpo,” sussurrai a Beatrice mentre lavavamo i piatti.
“Vero?” sorrise. “E non preoccupartiho ancora i voti più alti.”
Dopo la laurea, iniziò la specializzazione in pediatria.
“Mi hai salvato tu una volta,” disse. “Ora voglio salvare altri bambini.”
Veniva a trovarmi di rado. Capivo. Aveva la sua vita. Ma conservavo ogni foto, ogni storia dei suoi piccoli pazienti.
Poi, un giovedì sera, squillò il telefono.
“Papà… posso venire domani?” La sua voce era spenta. Nervosa. “Devo parlarti.”
Il cuore mi batteva forte. “Certo, amore. Tutto bene?”
Il pomeriggio dopo arrivò da sola. Niente sorriso. Niente luce negli occhi.
“Che succede?” chiesi, abbracciandola.
Si sedette, incrociò le mani. “Due persone sono venute in ospedale. Un uomo e una donna. Hanno… chiesto di me.”
Aggrottai la sopracciglia. “Cosa intendi?”
“Disse





