Calma Prima della Tempesta

**Silenzio prima della tempesta**

In un paesino dimenticato da Dio, dove strade polverose si allungavano tra campi infiniti, l’aria tremava per il caldo, come una corda tesa pronta a spezzarsi. Erano cinque giorni che non pioveva, e tutto intorno era diventato una terra arida e screpolata. L’asfalto respirava calore come brace accesa, e il silenzio era così denso che sembrava poterlo tagliare con un coltello. Ogni cosa dava fastidio: lo scricchiolio delle persiane, l’odore di olio bruciato dalla cucina dei vicini, il rumore di un cucchiaio caduto per terra. Persino una mosca che sbattava contro il vetro della finestra sembrava un campanello d’allarme, come se presagisse una tempesta di cui gli altri ancora non sapevano nulla.

Alessandra si svegliò nel cuore della notte con la sensazione che qualcuno fosse accanto a lei. Non un sguardo, ma una presenza pesante, quasi tangibile, come un’ombra nascosta nell’angolo della stanza. Rimase immobile, ascoltando il silenzio del suo piccolo appartamento. L’aria era soffocante. Non aveva aperto le finestre—in quel paesino, la notte non portava refrigerio, ma solo abbaiare di cani, chiacchiere ubriache e puzza di sigarette economiche. L’atmosfera era stagnante, come in un granaio abbandonato. Il suo corpo bruciava dentro, come se qualcosa di invisibile la stesse lentamente prosciugando, accumulandosi da anni come polvere negli angoli.

In cucina, il rubinetto gocciolava. Alessandra si sollevò, tendendo l’orecchio. *Drip*. Silenzio. Di nuovo *drip*. Si alzò, camminando a piedi nudi con cautela, evitando le assi scricchiolanti del pavimento, come se temesse di svegliare qualcuno, anche se sapeva bene di essere sola. Sul pavimento c’era una tazza rotta. Cocci taglienti come una ferita fresca. Accanto, una pozza d’acqua—non solo gocce, ma un intero bicchiere versato. Rotonda, ferma, estranea. Alessandra rimase immobile. Viveva da sola. Da sempre. Ma in quel momento, la sua certezza cominciò a incrinarsi.

Spense la luce e tornò in camera. Il sonno non arrivava. Il lenzuolo le si attaccava alla pelle, il cuscino sembrava una pietra bollente. Si rigirò, cercando un filo d’aria inesistente. Dentro di lei si era insediato qualcosa—non una voce, non una figura, ma un’ombra. Come se qualcuno stesse in silenzio accanto a lei, e quel silenzio fosse più assordante di qualsiasi parola. Non la spaventava, ma la svuotava lentamente, come una crepa che si allarga in un vetro.

La mattina dopo, preparò una minestra. Lasciò la pentola a raffreddare, prese uno straccio e pulì il piano cottura—non perché fosse sporco, ma solo per tenere le mani occupate. Si sedette vicino alla finestra, tirò fuori un vecchio quaderno. Consumato, a quadretti, con una macchia d’olio sulla copertina e gli angoli delle pagine piegati. Dentro c’erano liste della spesa, frammenti di poesie della giovinezza, ricette, sogni. C’era anche un disegno: una teiera con il vapore che usciva, tracciato da una mano tremante dieci anni prima. Quel giorno aprì una pagina bianca e scrisse: *”Nessuno viene. Nessuno chiede. Ma io sono ancora qui.”*

Poi lo cancellò. Lentamente, come se stesse cancellando un pezzo di se stessa. L’inchiostro si allargò, la carta sotto le dita sembrò ruvida, quasi resistesse.

Rimase seduta a lungo. Ascoltò il rombo del vecchio frigorifero, lo sbattere della porta d’ingresso. Qualcuno era arrivato. Non da lei. Di nuovo oltre. I passi sulle scale diventavano più flebili ogni anno che passava. Il mondo se ne andava, senza voltarsi.

Alessandra andò in camera, si sedette sul bordo del letto, sistemò le coperte a suo marito, Fabrizio. Lui non si svegliò. Respirava affannosamente, in modo irregolare, ma era normale ormai. Gli posò una mano sulla spalla. Non si tirò indietro. Allora sentiva ancora qualcosa. Allora era ancora vivo. E lei era lì. E finché c’era questo *”insieme”*, c’era ancora un senso.

Si sdraiò accanto a lui. Non per dormire. Solo per essere più vicina. Per respirare all’unisono. Anche solo per questa sera. Anche solo per questo fragile silenzio, condiviso.

Qualche giorno dopo, trovò il coraggio di chiamare sua figlia. Gironzolò per la cucina, spostò piatti, pulì il lavandino già pulito, fissò il telefono come se fosse una bomba. Compose il numero con dita tremanti, temendo di sentire freddezza, fretta, indifferenza.

— Mamma? Tutto bene?

— Niente. Volevo solo sentire la tua voce.

— Mamma, sono sommersa dal lavoro. Ti richiamo, ok?

— Certo, piccola. Certo.

Il cuore le si strinse, ma la voce rimase ferma. Dopo la chiamata, si sedette, si coprì il viso con le mani, poi si alzò e mise su l’acqua per il tè, come se potesse riempire il vuoto.

Ma la figlia richiamò. Dopo tre ore. Senza preamboli.

— Mamma, come stai?

E Alessandra scoppiò a piangere. Non per il dolore. Perché qualcuno glielo aveva chiesto. Semplicemente *”Come stai?”*. E improvvisamente capì quanto quelle parole le fossero mancate. Un semplice *”Come stai?”*

Una settimana dopo, in casa arrivò un gattino. Lo portò la nipotina. Piccolo, tremante, con orecchie enormi e occhi pieni di stupore.

— Nonna, è per te. Così non ti annoi più. Lui ha paura, e tu sei sola. Siete fatti l’uno per l’altra.

Alessandra lo prese con cautela, come se fosse un vaso di cristallo. E all’improvviso, un calore si diffuse nel suo petto, come se qualcuno avesse sciolto un nodo stretto da tempo.

Il gattino era rosso, con zampe lunghe e una faccia buffa, come se fosse sempre sorpreso dal mondo. La prima notte la passò sotto una sedia, ma la mattina dopo già dormiva sulla coperta di Alessandra, accoccolato ai suoi piedi. Lo chiamarono Pesca. Non importava che fosse maschio. Semplicemente Pesca. Perché era caldo, morbido e sempre vicino. Faceva le fusa così forte che sembrava voler riempire tutto il silenzio della casa, e in quel suono c’era qualcosa di vivo, di vero.

Ora, al mattino, Alessandra parlava di nuovo. Prima con Pesca—gli chiedeva come aveva dormito, gli ricordava che la ciotola era vicino alla finestra. Poi con Fabrizio—leggeva le notizie, brontolava perché aveva di nuovo lasciato cose in giro. Poi con se stessa—non più sussurrando, ma a voce alta. Come per controllare se la sua voce esisteva ancora. E poi con chiunque passasse. A volte la vicina. A volte il postino. A volte l’ombra alla finestra.

Il telefono non lo riparò mai. Non serviva. Le parole vere non si perdono nella fretta. Vivono nelle pause, negli sguardi, nei gesti. E in un piccolo batuffolo caldo che arriva al mattino, proprio quando ne hai più bisogno.

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