Cane abbraccia il padrone per l’ultima volta prima dell’eutanasia, quando all’improvviso il veterinario grida: ‘Fermi!’ – ciò che accadde dopo fece piangere tutta la clinica

Il piccolo ambulatorio veterinario sembrava crescere più stretto con ogni respiro, come se le pareti stesse percepissero il peso del momento. Il soffitto basso opprimeva, e sotto di esso, come un canto fantasma, ronzavano le luci al neonla loro luce fredda e uniforme illuminava tutto, tingendo la realtà di tonalità di dolore e addio. Laria era densa, carica di emozioni impossibili da esprimere a parole. In quella stanza, dove ogni suono sembrava una profanazione, regnava un silenzio profondo, quasi sacro, come quello che precede lultimo respiro.

Sul tavolo metallico, coperto da una vecchia coperta a quadri, giaceva Arturoun tempo un possente pastore maremmano, il cane le cui zampe avevano solcato le infinite distese dei campi toscani, le cui orecchie avevano ascoltato il sussurro dei boschi primaverili e il gorgoglio dei ruscelli che si svegliavano dopo linverno. Ricordava il calore del focolare, lodore della pioggia sul pelo e la mano che trovava sempre il suo collo, come per dire: “Sono qui con te.” Ma ora il suo corpo era consumato, il pelo opaco e in alcuni punti spelacchiato, come se la natura stessa stesse cedendo alla malattia. Il suo respiro era rauco, intermittente, ogni inspirazione una lotta contro un nemico invisibile, ogni espirazione un sussurro di addio.

Accanto a lui, piegato dal dolore, sedeva Matteoluomo che lo aveva cresciuto fin da cucciolo. Le sue spalle erano cadenti, la schiena curva, come se il peso della perdita lo avesse già schiacciato prima ancora della morte stessa. La sua manotremante ma gentileaccarezzava lentamente le orecchie di Arturo, come per imprimere nella memoria ogni dettaglio, ogni curva, ogni ciuffo di pelo. Negli occhi gli brillavano lacrime grosse e calde, ferme sulle ciglia, quasi temessero di spezzare la fragilità del momento. Il suo sguardo era un universo di dolore, amore, gratitudine e rimorso.

“Sei stato la mia luce, Arturo,” sussurrò, con una voce appena percettibile, come se temesse di svegliare la morte. “Mi hai insegnato la fedeltà. Sei rimasto al mio fianco quando cadevo. Hai leccato le mie lacrime quando non potevo piangere. Perdonami per non essere riuscito a proteggerti. Perdonami per questo.”

E allora, come in risposta a quelle parole, Arturodebole, esausto, ma ancora pieno damoreaprì gli occhi. Erano velati da una patina opaca, come un sipario tra la vita e lignoto. Ma in essi si accendeva ancora il riconoscimento. Una scintilla di vita. Raccolse le ultime forze, sollevò la testa e posò il muso sul palmo di Matteo. Quel gestosemplice ma potentissimogli spezzò il cuore. Non era solo un contatto. Era un grido dellanima: “Sono ancora qui. Ti ricordo. Ti amo.”

Matteo appoggiò la fronte sulla testa del cane, chiuse gli occhi, e in quellistante il mondo scomparve. Non cerano più lambulatorio, la malattia, la paura. Cerano solo lorodue cuori che battevano allunisono, due esseri legati da un legame che né il tempo né la morte potevano spezzare. Gli anni passati insieme: lunghe passeggiate sotto la pioggia autunnale, notti dinverno in tenda, serate estive davanti al falò, con Arturo ai suoi piedi a vegliare sul suo sonno. Tutto gli passò davanti agli occhi, come un film, lultimo dono della memoria.

Nellangolo, linfermiera e il veterinario assistevano in silenzio. Avevano visto scene simili tante volte. Ma il cuore non impara mai a essere impassibile. Linfermiera, una giovane donna dagli occhi dolci, si voltò per nascondere le lacrime. Le asciugava con il dorso della mano, ma era inutile. Perché è impossibile essere indifferenti quando si vede lamore combattere contro la fine.

E poiil miracolo. Arturo tremò tutto, come se raccogliesse gli ultimi brandelli di vita. Lentamente, con uno sforzo sovrumano, sollevò le zampe anteriori. E, tremante ma con incredibile forza, abbracciò Matteo al collo. Non era solo un gesto. Era un ultimo dono. Era perdono, gratitudine, amore racchiuso in un solo movimento. Come se dicesse: “Grazie per essere stato il mio umano. Grazie per avermi dato una casa.”

“Ti amo” sussurrò Matteo, trattenendo i singhiozzi che gli salivano in gola. “Ti amo, piccolo mio Ti amerò per sempre”

Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Si era preparato. Aveva letto, pianto, pregato. Ma nulla poteva prepararlo a questoal dolore di perdere chi era parte della sua anima.

Arturo respirava con fatica, il petto che si sollevava a scatti, ma le zampe non lo lasciavano. Resistevano.

Il veterinario, una donna giovane con lo sguardo fermo e le mani tremanti, si avvicinò. Nella sua mano brillava una siringasottile, fredda come il ghiaccio. Il liquido trasparente dentro sembrava innocuo, ma portava la fine.

“Quando sarà pronto” disse piano, quasi sussurrando, come se temesse di rompere quel legame fragile.

Matteo alzò gli occhi su Arturo. La sua voce tremava, ma in essa risuonava un amore che si prova una sola volta nella vita:

“Puoi riposare, mio eroe Sei stato coraggioso. Il migliore. Ti lascio andare con amore.”

Arturo sospirò pesantemente. La coda si mosse appena sulla coperta. Il veterinario alzò già la mano per iniettare il farmaco

Ma si bloccò. Aggrottò le sopracciglia. Si chinò. Appoggiò lo stetoscopio sul petto del cane e si irrigidì, come se avesse smesso di respirare.

Silenzio. Persino il ronzio delle luci svanì.

Si raddrizzò, gettò la siringa sul vassoio, si voltò di scatto verso linfermiera:

“Termometro! Veloce! E la cartella clinicasubito!”

“Ma ha detto che stava morendo” mormorò Matteo, senza capire.

“Lo credevo,” rispose il veterinario, senza distogliere gli occhi da Arturo. “Ma non è un arresto cardiaco. Non è un collasso degli organi. È probabilmente uninfezione fortissima. Setticemia. Ha la febbre a quaranta! Non sta morendosta combattendo!”

Gli afferrò una zampa, controllò il colore delle gengive, si drizzò di scatto:

“Flebo! Antibiotici ad ampio spettro! Subito! Non aspettiamo il laboratorio!”

“Può può salvarsi?” Matteo strinse i pugni così forte che le nocche sbiancarono. Aveva paura persino di sperare.

“Se facciamo in temposì,” disse lei con fermezza. “Non lo lasceremo andare. Mai.”

Matteo rimase nel corridoio. Su una stretta panchina di legno dove avevano seduto altre persone con altri dolori. Ora era solo. Il tempo si era fermato. Ogni rumore da dietro la portapassi, fogli che frusciavano, il tintinnio del vetrolo facevano sobbalzare, come se da un momento allaltro potesse arrivare un: “Mi dispiace non ce lha fatta.”

Chiudeva gli occhie vedeva Arturo che lo abbracciava con le zampe. Vedeva i suoi occhi pieni damore. Sentiva il suo respiro, che temeva di perdere.

Passarono ore.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

twenty − 7 =

Cane abbraccia il padrone per l’ultima volta prima dell’eutanasia, quando all’improvviso il veterinario grida: ‘Fermi!’ – ciò che accadde dopo fece piangere tutta la clinica