Il cane abbracciò il suo padrone per lultima volta prima delleutanasia, quando allimprovviso la veterinaria gridò: «Fermi!» ciò che accadde dopo fece piangere tutti nella clinica.
Il piccolo ambulatorio veterinario sembrava stringersi ad ogni respiro, come se le stesse pareti sentissero il peso di quel momento. Il soffitto basso sembrava schiacciare, mentre sotto di esso le luci al neon ronzavano come un canto fantasmala loro luce fredda e uniforme tingeva la realtà con sfumature di dolore e addio. Laria era densa, carica di emozioni che non potevano essere espresse a parole. In quella stanza, dove ogni suono sembrava una bestemmia, regnava un silenzio profondo, quasi sacro, come prima dellultimo respiro.
Sul tavolo metallico, coperto da una vecchia coperta a quadri, giaceva Leoun tempo maestoso pastore dellEuropa dellEst, un cane le cui zampe avevano solcato distese di neve, le cui orecchie avevano sentito il sussurro del bosco in primavera e il mormorio del ruscello dopo un lungo inverno. Ricordava il calore del falò, lodore della pioggia sul suo pelo e la mano che gli accarezzava sempre il collo, come per dire: «Sono qui con te». Ma ora il suo corpo era consumato, il pelo opaco e spelacchiato, come se la natura stessa si arrendesse alla malattia. Il suo respiro era affannoso, ogni inspirazione una lotta contro un nemico invisibile, ogni espirazione un sussurro di commiato.
Accanto a lui, piegato dal dolore, sedeva Arturoluomo che lo aveva cresciuto da cucciolo. Le sue spalle erano curve, come se il peso della perdita lo avesse già schiacciato prima ancora della morte stessa. La sua manotremante ma delicataaccarezzava lentamente le orecchie di Leo, come per imprimere nella memoria ogni dettaglio. Le lacrime gli brillavano negli occhi, calde e pesanti, ma non cadevano, quasi temessero di spezzare la fragilità di quellattimo. Nel suo sguardo cera un universo intero: dolore, amore, gratitudine e un rimorso straziante.
«Sei stato la mia luce, Leo» sussurrò, con una voce appena udibile, come se temesse di svegliare la morte. «Sei stato colui che mi ha insegnato la fedeltà. Che è rimasto al mio fianco quando cadevo. Che ha leccato le mie lacrime quando non potevo piangere. Perdonami per non averti protetto abbastanza. Perdonami per questo.»
E allora, come in risposta a quelle parole, Leodebole, sfinito, ma ancora pieno damoreaprì gli occhi. Erano velati da una patina opaca, come un sipario tra la vita e lignoto. Ma in essi brillava ancora un barlume di riconoscimento. Raccolse le ultime forze, sollevò la testa e poggiò il muso sulla mano di Arturo. Quel gestosemplice ma potentissimospezzò il cuore. Non era solo un contatto. Era un grido dellanima: «Sono ancora qui. Ti ricordo. Ti amo.»
Arturo appoggiò la fronte sulla testa del cane, chiuse gli occhi, e in quel momento il mondo svanì. Non cera più lambulatorio, non la malattia, non la paura. Cerano solo lorodue cuori che battevano allunisono, due anime legate da un legame che né il tempo né la morte potevano spezzare. Gli anni trascorsi insieme: lunghe passeggiate sotto la pioggia autunnale, notti invernali in tenda, serate estive attorno al fuoco con Leo ai suoi piedi, a vegliare sul suo sonno. Tutto gli passò davanti agli occhi come un film, un ultimo dono della memoria.
Nellangolo, la veterinaria e linfermiera assistevano in silenzio. Avevano visto scene simili tante volte, ma il cuore non impara mai a restare impassibile. Linfermiera, una giovane donna dagli occhi gentili, si girò per nascondere le lacrime. Le asciugò con il dorso della mano, ma non servì a nulla. Perché è impossibile restare indifferenti di fronte allamore che lotta contro la fine.
Poi, accadde un miracolo. Leo tremò tutto, come se radunasse gli ultimi brandelli di vita. Con uno sforzo sovrumano, sollevò le zampe anteriori e, tremando ma con incredibile forza, abbracciò Arturo al collo. Non era un semplice gesto. Era un ultimo dono. Era perdono, gratitudine, amore racchiuso in un movimento. Come se volesse dire: «Grazie per essere stato il mio umano. Grazie per avermi dato una casa.»
«Ti amo» sussurrò Arturo, trattenendo i singhiozzi che gli salivano in gola. «Ti amo, piccolo mio ti amerò per sempre.»
Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Si era preparato. Aveva letto, pianto, pregato. Ma niente lo aveva preparato a questoa quanto facesse male perdere chi era parte della sua anima.
Leo respirava affannosamente, ma le zampe non lo lasciavano. Teneva duro.
La veterinaria, una donna giovane con lo sguardo fermo e le mani tremanti, si avvicinò. Nella sua mano luccicava una siringasottile, fredda come il ghiaccio. Il liquido trasparente dentro sembrava innocuo, ma portava la fine.
«Quando sarà pronto» disse piano, quasi sussurrando, come se temesse di spezzare quel legame fragile.
Arturo alzò lo sguardo su Leo. La sua voce tremava, ma era carica di un amore che si prova una sola volta nella vita:
«Puoi riposare, mio eroe Sei stato coraggioso. Il migliore. Ti lascio andare con amore.»
Leo sospirò pesantemente. La coda si mosse appena sulla coperta. La veterinaria alzò già la mano per iniettare il farmaco
Ma allimprovviso si bloccò. Aggrottò le sopracciglia. Si chinò. Appoggiò lo stetoscopio sul petto del cane e si irrigidì, come se avesse smesso di respirare.
Silenzio. Persino il ronzio delle luci scomparve.
Si raddrizzò, gettò la siringa sul vassoio, si voltò di scatto verso linfermiera:
«Termometro! Subito! E portatemi la cartella!»
«Ma avevate detto sta morendo» mormorò Arturo, senza capire.
«Così credevo» rispose la veterinaria, senza staccare gli occhi da Leo. «Ma non è un arresto cardiaco. Non è un cedimento degli organi. È probabilmente uninfezione fortissima. Setticemia. Ha quasi quaranta di febbre! Non sta morendosta combattendo!»
Gli afferrò una zampa, controllò il colore delle gengive, si raddrizzò di scatto:
«Flebo! Antibiotici ad ampio spettro! Ora! Non aspettiamo gli esami!»
«Può salvarsi?» Arturo serrò i pugni così forte che le nocche sbiancarono. Aveva paura persino di sperare.
«Se facciamo in temposì» rispose decisa. «Non lo lasceremo andare. Non adesso.»
Arturo rimase nel corridoio. Su una stretta panca di legno dove altri prima di lui avevano atteso con dolori diversi. Ora era solo. Il tempo si era fermato. Ogni rumore dalla portapassi, fruscio di carta, tintinnio di vetrilo faceva sobbalzare, come se da un momento allaltro potesse sentire: «Mi dispiace non ce lha fatta.»
Chiudeva gli occhi e vede