— E adesso? Così semplicemente gli dai casa a lui? E io? Che debbo fare, con i figli, andare via da Castellamare, in strada? — Margherita si alzò di scatto dalla poltrona, le guance arrossate dall’indignazione.
— Margherita, calmati, cara. Non in strada, torno a casa ti aiuto, farò un piccolo anticipo per un appartamento — Vittorio tentò di parlare con dolcezza, ma la figlia non lo ascoltava.
— Un anticipo! Ma sai quanto costa abitare oggi? Sai i tassi sul mutuo? E a Gabriele tu gli doni tutta la casa, per gratis? Per i suoi bellissimi occhi?
— È mio figlio, Margherita.
— E io non sono tua figlia forse? — disse lei, con voce tremante. — Ho vissuto vent’anni come tua figlia, e adesso, improvvisamente, non lo sono più?
Vittorio sospirò, esausto, e si lasciò cadere sul divano. Quella discussione si ripeteva per la terza volta in una settimana. Ogni volta lo stesso risultato: urla, lacrime, accuse.
— Margher, figlia, cerca di capire. Gabriele con la moglie e i due figli si stringe in uno studio, e pure il terzo è in arrivo. Tu, invece, abiti con Marco in un appartamento di proprietà, anche se affittato.
— Affittato! — gridò Margherita.
— Ma non è uno studio comunque. E poi… io non ti abbandono. Solo che la casa… Hai capito? L’ho costruita io quando Gabriele era appena nato. Ogni mattoncino l’ho posato con le mie mani, sempre pensavo di lasciarla al figlio.
— Ovviamente! Ma chi mi aiutava quando ti ammalisti? Andavo a Castellamare ogni giorno per darti le medicine, cucinarti. E dove era Gabriele? A Torino, a guadagnare!
Vittorio si passò una mano sugli occhi. Gabriele si trasferì a Torino per lavoro, gli ultimi anni ci mise l’impegno per la famiglia. Ma Margherita… era lei che lo aveva curato dopo quell’infarto. Tuttavia abitava solo un treno di distanza, non in un altro paese.
— Margherita, la casa era sempre destinata al figlio. Questa decisione con tua madre la presi prima ancora della tua nascita. Così andava la tradizione in famiglia.
— Ah, la mamma! — rise amaramente lei. — La mamma non permetterebbe mai tale ingiustizia!
— Al contrario. La mamma sapeva che la casa andrebbe a Gabriele, e a te voleva aiutare con l’acquisto di un appartamento.
— La mamma morì dieci anni fa! — le lacrime brillarono nei suoi occhi. — E tu… tu vorresti solo comprare la mia pace con un regalino!
Sulla soglia comparve la figlia, Sofia, di dieci anni, spaventata per l’arrabbiata madre e per il nonno in silenzio.
— Mamma, che gridi?
Margherita si girò bruscamente, abbassando il tono.
— Sofia, torna in stanza. I grandi parlano.
La bambina esitò, ma obbedì. Margherita si lasciò ricadere pesantemente sulla poltrona.
— Sai che, papà? Sono stanca. Hai sempre preferito Gabriele. A lui il meglio, a me il resto. Se non vuoi dividere per bene, farò causa. Prenderò il mio, non dubitare.
Vittorio gelò. Fino ad allora non aveva mai minacciato la figlia con un processo.
— Margheritina, perché proprio così… Sono vivo ancora, che eredità mai!
— Oh, non sai? So che tu e Gabriele già firmaste tutto. La donazione la scriveste, vero? Per saltarmi addosso?
L’uomo non rispose. Era vero, un mese prima aveva firmato il permesso per Gabriele. Lui insisté. Disse che così ci sarebbero state meno complicazioni dopo, quando… Vittorio cacciò via i brutti pensieri.
— Ho fatto ciò che credevo giusto — disse piano. — E ti aiuterò con casa, te lo prometto. Ma la casa rimarrà a Gabriele.
Margherita si alzò di scatto.
— Capisco… — non finì la frase, afferrò la borsa e uscì di corsa. — Sofia! Preparati, ci andiamo!
La bambina comparve dopo un minuto, sorrise timidamente al nonno.
— Non ti arrabbiare con mamma, nonno. È stanca.
Vittorio sorrise con sforzo e le accarezzò i capelli.
— Vai, tesoro. Non far aspettare tua madre.
Quando la porta si chiuse con uno sbattente, Vittorio si alzò a fatica e si avvicinò alla finestra. Margherita, con la figlia per mano, camminava veloce verso il cancello. Si girò, come se sapesse che la stava guardando, ma subito distolse lo sguardo e tirò il cancello.
L’uomo guardava sua figlia e nipote allontanarsi, inondato di rimorso. Non aveva forse torto? Forse non aveva trattato Margherita con equità? i figli devono essere uguali, ma la proprietà… sempre ai fratelli. Così era sempre stato. La tradizione lo voleva.
Il telefono lo risvegliò dai pensieri. Era Gabriele.
— Papà, come stai? — la voce era allegra. — Noi arriviamo venerdì, come concordato. Elena ha quasi finito i preparativi, i bambini sono pronti.
— Sì, sì, figlio — tossì. — Sto bene, vi aspetto.
— E Margherita la vide? Hai parlato?
— Sì, sì… — esitò. — Non prese bene la notizia.
— Lo immaginavo! — la voce si arrabbiò un poco. — È sempre stata avida. Che, ti diede un’altra scenata?
— Gabriele, non parlare così della sorella. A lei non va meglio. Con Marco non va bene, i soldi hanno sempre mancato…
— A chi non mancano? — lo interruppe lui. — Anche a me non c’è oro in bocca. Ma almeno lavoro, non piango perenne!
— Margherita lavora, — rispose dolcemente il padre.
— Tre giorni a settimana in biblioteca? Non è lavoro, è hobby… Va bene, papà, non ti preoccupare. Tutto va bene. Hai fatto bene con casa. Te lo prometto, mi prenderò cura di te.
Vittorio sorrise amaramente. Negli anni di appoggio suo figlio si riduceva a telefonate rare e visite ancora più rare. Solo se onesto, Gabriele aveva lavorato duramente. Con moglie, due bambini piccoli, un terzo in arrivo e un lavoro pesante…
— Certo, figlio. Lo so.
Dopo la telefonata con Gabriele, si sentì ancora più oppresso. Passò lentamente in cucina, mise a bollire l’acqua. La vecchia casa gemeva, come se rinfacciasse all’ospite. Fuori faceva buio, un autunno freddo e precoce.
Il telefono squillò di nuovo. Questa volta era Margherita.
— Papà — la voce era bassa, stanca. — Scusami per la scena. Mi sono trascinata.
— Va bene, piccolina. Capisco.
— No, non capisci. E nemmeno io. È che… è che mi fa male. Pensavo di essere sempre uguale per te e Gabrie. E adesso vedo che non lo sono.
— Margherita, voi siete miei figli, vi amo in egual modo — Vittorio sentì un nodo in gola. — Ma la casa… sempre al figlio andò. È tradizione.
— Tradizione, — ripeté lei, con voce vuota. — Sai che epoca è questa? Il ventunesimo secolo! Che tradizione? Uguaglianza ci deve essere.
Vittorio non seppe che dire. Margherita tacque, quindi proseguì più calma.
— Va bene, papà. Ho pensato, e decidevo… non presenterò causa. È sciocco. Siamo famiglia. Ma io non ci vengo più. Non posso. È troppo dolore.
— Marghietta, no…
— No, papà. L’ho deciso. Se vuoi Sofia, puoi vederla se ti va. Non ti farò impedimento. Ma io non ci vengo.
Vittorio sentì una lacrima scendere.
— Figlia, perché non…
— Addio, papà.
Il telefono tacque. Vittorio rimase immobile, con il cellulare in mano. Fuori faceva notte, l’acqua aveva smesso di bollire, il caffè era freddo. In casa regnava un silenzio pesante.
I giorni passarono. Gabriele arrivò con moglie e figli, la casa si svegliò con rumore, voci e confusione. La nuora Elena si mise subito a sistemare tutto, spostava mobili, puliva. Gabriele spostava scatole nell’armadio della camera per i bimbi. Kirill e Natasha correvano per la casa, esploravano la nuovissima casa.
Ai nonni diedero una stanza, Elena la preparò con conforto: sedie comode, tende nuove, un materasso anatomico.
— Papà, ti manca spazio per le tue cose? — chiedeva con premura. — Magari posso metterne un tavolo?
— No, dài, cara, ce ne è a sufficienza — ringraziava lui, cercando di tampinare. — Che roba ho mai…
La sera si radunavano in cucina. Elena preparava la cena, Gabriele parlava dei piani futuri. Voleva ricostruire la casa, cambiare la stanza di sopra, sistemare l’impianto riscaldamento.
— Papà, hai fortuna che lavoro in costruzioni — rideva lui. — Ti faremo tutto a sconto, per amicizia.
Vittorio annuiva e sorrideva. Ma i pensieri erano altrove. Pensava sempre a Margherita e a Sofia. Che facevano là? Non chiamava, alle sue telefonate rispondeva con risposte secche, dicendo che era occupata.
Una sera, quando i bambini dormivano e Elena era in bagno, Vittorio decise finalmente di parlare col figlio.
— Gabriele, penso sempre a Margherita…
Lui fece una smorfia.
— Che c’è? Vuole i soldi?
— No, figlio. Solo… Forse abbiamo sbagliato con casa? Forse c’era un altro modo?
Gabriele mise da parte il giornale e lo guardò.
— Papà, non possiamo cambiar決. La casa va al maschio, l’hai sempre detto tu! E poi, a noi serve di più. Abbiamo tre bambini.
— Anche a Margherita ci sono tre persone… — disse piano Vittorio.
— Tre persone? — ridacchiò lui. — Un marito alcolizzato e una figlia. E hanno un appartamento, sebbene affitto. A noi ha preso un’abitazione fissa per la prima volta!
— Ma può essere divisa… il terreno è ampio…
— Papà, — Gabriele lo guardò con voce severa. — Abbiamo già deciso tutto. Documenti sono firmati. Margherita è gelosa. Lo sai, quando ti diedi l’auto per diciotto anni si mise a piangere?
— E appena dopo le diedi io…
— Ma dopo due anni! Solo un corso per guidare, non un’auto. Lei non fece niente per guadagnarla, voleva sempre tutto regalato.
Vittorio sospirò. Nei discorsi di Gabriele c’era una parte di verità. Margherita sì, che sempre fu più frivola, mossa. Diversamente da determinato Gabriele, lei fluitiva nel sole. Ma fu forse colpa sua e della moglie?
— Inoltre — aggiunse lui — è sposata. Che le dia il sussidio il marito. Io mi prenderò cura di te, va bene?
Entra Elena, uscendo dalla vasca, con l’asciugamani.
— Di che litigate voi uomini?
— Niente — rise Gabriele. — Papà si preoccupa per Margherita.
Elena si sedette accanto a Vittorio e lo prese per mano.
— Papà, non pensarci. Hai fatto giusto. Lei capirà col tempo. Noi pensiamo a voi.
Vittorio sorrise grato. Elena era una brava donna, premurosa. A Gabriele fu fortunato.
La vita proseguì. Vittorio si occupava dei nipoti, curava il giardino. Gabriele e Elena sistemavano casa. Lentamente l’uomo si abituò, ma i pensieri per Margherita non lo lasciavano.
Un giorno, tutti se ne erano andati: Gabriele al lavoro, Elena accompagnava i bambini alla ludoteca. Bussarono alla porta. Era Sofia.
— Nonno! — corse ad abbracciarlo. — L’ho tanto mancato!
— Sofia, tesoro! — Vittorio stringe forte la nipote. — Come cresci, in questi mesi!
— Due centimetri! — annunciò orgogliosa. — E sono una brava allieva. Vuoi vedere il registro?
— Certo, sì. Vieni qui, ti tiro su il the.
Mentre sorseggiavano il the con biscotti, Sofia parlava della scuola, della nuova insegnante, delle amiche. Vittorio ascoltava avidamente, non perdeva un dettaglio.
— E come tua madre?
Sofia improvvisamente si oscurò.
— Piange spesso. Si nasconde quando non la vedo. Secca con papà.
— Si litiga tanto?
— Sì. Papà dice che non siamo di nessuno, e lei dice che è colpa sua. Poi lui se ne va, lei piange. — Sofia tacque un momento. — E papà ha detto che andremo via.
— Via? Dove?
— Non so — spalancò le spalle. — Ha trovato un lavoro in un’altra città. La biblioteca chiuse, e abbiamo poco denaro.
Vittorio sentì un dolore al cuore. Non ne avrebbe sopportato: d’aver abbandonato la figlia nei momenti difficili, e invece…
— E tuo padre vi va con voi?
Sofia scosse la testa.
— No. Rimane qui. Si separa con mamma.
Fu un colpo. Vittorio sapeva che c’erano problemi tra Margherita e il marito, ma non immaginava il divorzio.
— Nonno, posso venire a te a Pasqua? — chiese improvvisamente Sofia. — Anche se andremo lontano?
— Certo, angioletto — Vittorio la abbracciò forte. — Certo che vieni. Sempre.
Quando Sofia se ne andò, Vittorio rimase immobile. Nei sentimenti si intrecciavano mille pensieri. Margherita partiva, si separava. Rimaneva sola con una bambina in una città straniera. E lui, padre, non aiutò in tempo. Anzi, tolse l’ultimo sostegno — lavoro nel vecchio paese.
Sera, durante la cena. Gabriele e Elena parlavano dei piani per fine settimana, i bambini schiamazzavano, Vittorio pensava.
Finalmente, dopo che Elena mise a letto i bambini e si ritirò in camera, e Gabriele si mise a guardare TV, Vittorio decise.
— Figlio mio, dobbiamo parlare.
Gabriele si distolse dallo schermo.
— Qualcosa che non va?
— Margherita si separa da Marco — disse Vittorio. — Va in un’altra città.
— Bene — disse Gabriele con voce ostile. — Marco è sempre ubriaco. Che serve…
— No, non è per questo — lo interruppe. — Voglio aiutare Margherita.
— Aiutare? Come?
— Venderò casa.
Gabriele balzò in piedi.
— Cos’hai detto? Quale casa? Tu sei matto? Casa è mia, lo hai firmato?
— Annullerò la donazione. Ce ne sono mezzi per farlo in tribunale, l’ho verificato.
— Papà, — Gabriele si strinse i pugni. — Che sciocchezza! E noi? Che ne è di noi? Ci torniamo in quella stanza?
— No, figlio. L’ho già pensato. Vendiamo casa e compreremo due appartamenti: uno per te, l’altro per Margherita e Sofia. Alcuni soldi ci sono, basta per il primo anticipo.
— Che… — Gabriele sbatté i pugni. — È per Margherita, vero? Lei ti convinse. È venuta da te, piangeva?
— No, figlio. Non venne. Venne Sofia. Mia nipote. Mia sorella, tua cugina. Ti disse che tua madre spesso si singhiozzava. Che va via. Che ti vuoi che lei se ne vada? Che io non veda più la nipote?
— Papà, — Gabriele si guardò in giro, — non puoi pretendere che io permetta questo…
— Casa è solo cemento, figlio. I parenti sono la famiglia. Non posso scegliere tra i miei figli. Non posso permetterne uno e non dare niente all’altro.
Entra Elena. Ascolta la conversazione in silenzio.
— Gabriele, — disse dolcemente, — papà ha ragione. Margherita è in una situazione peggio di noi. Ha solo lei, non ha supporto. E tu hai madre, hai la nostra opinione.
— E tu sei d’accordo? — Gabriele guardò la moglie con rancore. — Aspettavamo tutto questo, progettavamo. E adesso al cane?
— Non al cane, ma a tua sorella e alla cugina — rispose ferma Elena. — Gabriele, pensaci. Se fosse tua figlia, vorresti che qualcuno la facesse felice?
Dopo un lungo silenzio, Gabriele espirò pesantemente.
— Va bene. Come volete voi. Ma sappiate che se Margherita spande tutto e rimane di nuovo a zero, non dovete lamentarvi.
Vittorio si alzò, si mise accanto a Gabriele, posò una mano sulla sua spalla.
— Grazie, figlio mio. So che capisci. Sei il mio ragazzo.
Il giorno dopo, Vittorio telefonò alla figlia.
— Margherita, abbiamo da dirti una cosa importante. Siamo d’accordo per oggi alle sei.
— Papà, sono occupata. E insomma, non abbiamo niente…
— Parliamo della casa — lo interruppe Vittorio. — Entra alle sei.
Margherita arrivò in orario. Sembrava stanca, pallida. Gabriele ed Elena erano a casa anche loro, seduti con una tensione simile a una riunione.
— Entra, figlia — Vittorio la fece entrare. — Siedi. È un discorso importante.
Margherita si sedette, guardava ora lui, ora il fratello.
— Ho deciso di vendere casa — disse Vittorio. — Compreremo due appartamenti. Uno a te e Sofia, l’altro a Gabriele.
Lei si fermò, non credendo alle proprie orecchie.
— Che? Ma come… E Gabriele… La donazione?
— La donazione verrà annullata — disse Vittorio. — Gabriele concorda.
Lei guardò il fratello. Annuì cupamente.
— Perché? — chiese piano.
— Perché siete mie figlie — disse lui semplicemente. — Non posso distinguerle. Non dovevo neppure provare.
Margherita si coprì il viso con le mani, le spalle si mossero per un singhiozzo. Elena si avvicinò e l’abbracciò.
— Sarà tutto bene, figlia. Ce la faremo. Insieme.
Vittorio guardava i figli, sentendo il peso calare piano dal suo cuore. Aveva preso la decisione giusta, l’unica.
In primavera si vendè la casa. Al posto di essa, si comprarono due piante: una tre stanze a Gabriele, una due stanze a Margherita. Vittorio andò a stare con la figlia — era così che si poteva semplificare. Margherita trovò lavoro in una scuola, e presto organizzò un circolo letterario.
Estate, entrambe le famiglie andarono al mare. Seduto sulla spiaggia, Vittorio osservava Gabriele e Elena giocare a beach volley con Margherita, i bambini tutti in acqua — Kirill e Natasha, e Sofia, — e pensò a quanto vicino fu alla tremenda decisione. A distruggere la più preziosa cosa che possedeva — la famiglia.
Le case sono solo muri. La famiglia — le persone che ti amano. E che tu ami.