Era un giorno freddo dinverno quando Caterina si ritrovò per ore in fila davanti alla casa della vecchia Nina, una strega famosa in tutto il paese. Per quella giovane donna, era lultima speranza. Da anni, Caterina cercava di avere un figlio, ma per qualche misteriosa ragione, non ci riusciva. «Non so cosa dirle gli esami sono perfetti, non ci sono patologie», aveva sospirato il dottore. «Ma ci deve essere una ragione! Se sono sana, perché non riesco?» aveva insistito Caterina. «La medicina non può far nulla. Provi in chiesa, forse», aveva mormorato il medico.
Caterina e Matteo erano sposati da cinque anni. Avevano tutto: una casa spaziosa, una vita agiata, amore e rispetto. Mancava solo una cosa: le risate di un bambino tra quelle mura.
Da tempo Caterina sospettava che una maledizione gravasse su di loro, e dopo le parole del ginecologo, ne fu certa. «La chiesa va bene, ma nel tuo caso serve una strega!» le aveva suggerito unamica, scribacchiandole un indirizzo. «Vai, non pensarci troppo. Prima lo fai, meglio è!»
Finalmente, arrivò il suo turno. Con passo incerto, Caterina varcò la soglia di quella casetta umile. Davanti a sé, vide una vecchietta minuta, dal viso gentile, con un fazzoletto bianco in testa e un vestito colorato. Caterina sorrise: si era immaginata una strega spaventosa, con zanne affilate e un gatto nero sulla spalla.
«Buongiorno, figliola! Siediti qui, vicino allicona», disse Nina con una voce calda e rassicurante.
«Sa, ho un problema» Caterina scoppiò in lacrime prima ancora di finire la frase.
«Lo so, cara. E farò quel che posso», rispose la vecchia con tranquillità.
Caterina si sedette su una sedia imbottita accanto a una grande icona della Madonna. Nina cominciò a pregare, muovendo una candela attorno a lei. La cerimonia durò venti minuti. Poi, la strega si sedette di fronte a Caterina, prendendole le mani.
«Non potrai avere figli. Devi sciogliere la maledizione che ti porti dietro dallinfanzia», disse con calma.
«Quale maledizione? Chi avrebbe mai voluto maledirmi? Non ho fatto male a nessuno!»
«Tu no. È tua madre che si è macchiata di un grave peccato, e tu ne paghi le conseguenze», spiegò la strega.
«Ma non è giusto! Mia madre è morta da anni, perché devo scontare io i suoi peccati?»
«È la legge delluniverso. Non possiamo opporci.»
«Non può aiutarmi?» chiese Caterina, con un filo di speranza.
«No. Non posso. Se avessi il malocchio o una fattura, forse ma questo è diverso», scosse la testa la vecchia. «Devi scoprire contro chi tua madre ha peccato, e provare a riparare. E soprattutto, prega con il cuore, non solo per te, ma anche per i tuoi nemici.»
«Grazie», sussurrò Caterina.
Salì in macchina e chiamò il marito.
«Matteo? Non torno stasera. Devo andare dalla zia. Ci vediamo dopo, amore.»
Accese il motore e partì per il paese.
«Caterina! Perché non mi hai avvertita? Avrei preparato tutto!» esclamò la zia Rosaria, sorpresa ma felice.
«Sono qui per una ragione», la interruppe Caterina. «Devi dirmi la verità. Cosa ha fatto mia madre? Per cosa sto pagando?»
«Ma di che parli?» si confonde Rosaria.
Caterina le raccontò tutto, dalla strega alle parole sentite.
«Non avrei mai immaginato va bene, ascolta.»
Rosaria le rivelò che sua madre, Luisa, era stata la più bella del paese. Molti uomini la corteggiavano, ma lei si innamorò di uno sposato, Vincenzo. Senza rimorsi, Luisa lo portò via dalla moglie, Maria, che rimase sola con un figlio appena nato.
Maria, disperata, andò da Luisa e, in ginocchio, la supplicò di restituirle il marito. Ma Luisa, orgogliosa e crudele, la scacciò e la umiliò. Prima di andarsene, Maria urlò una terribile maledizione contro Luisa e i suoi figli non ancora nati
«E poi?» sussurrò Caterina, impietrita.
«Tua madre sposò Vincenzo, poi nacesti tu. Ma come sai, non vissero a lungo. Morirono uno dopo laltro, come se la maledizione di Maria avesse funzionato. E ora tu non riesci ad avere figli» la zia scoppiò in lacrime.
«Dimmi, Maria vive ancora qui? Voglio chiederle perdono per i peccati di mia madre.»
«Anche Maria non ha avuto pace dopo un po, impazzì. Allinizio era tranquilla, ma un giorno aggredì un passante e la portarono al manicomio. Suo figlio, Leone, finì in un orfanotrofio.»
«Leone è più grande di me. Quindi è mio fratello?» capì Caterina.
«Sì. Ma anche lui ha avuto una vita difficile», sospirò Rosaria. «Dallorfanotrofio tornò al paese, ma cadde nellalcol e nella violenza. Una notte dinverno, si perse nel bosco. Lo trovarono il giorno dopo, ma le gambe non ce la fecero. Ora è in sedia a rotelle.»
«Allora mia madre non solo distrusse quella famiglia, ma rovinò due vite innocenti.»
«Sì», confermò Rosaria.
«Zia, portami da mio fratello. Devo vederlo.»
«Sei pazza? È sempre ubriaco, non sai cosa ti può fare. Torna a casa!»
«No. Se non mi accompagni tu, chiederò in paese.»
«Va bene! Ma poi non lamentarti!» sbuffò Rosaria, infilandosi il cappotto.
Le due donne camminarono sulla neve fino alla baracca di Leone. Entrando nel cortile, Caterina capì che quella non era una casa, ma una rovina. La staccionata era marcia, non cera luce. Solo una lampada a olio illuminava una finestra sporca. Caterina bussò timidamente.
«Avanti!» rispose una voce roca.
«Caterina, se succede qualcosa, grida», sussurrò Rosaria.
Caterina entrò. Lodore di vino e tabacco la investì. Bottiglie vuote e mozziconi ovunque. Al tavolo, su una sedia a rotelle, sedeva un uomo dalletà indefinibile. Accanto a lui, una gatta bianca dormiva raggomitolata. Era lunica luce in quel posto buio.
«Hai un gatto sul tavolo», disse Caterina, senza sapere da dove cominciare.
«Non è affar tuo. “Bianca” fa quello che vuole, qui comanda lei», borbottò Leone, con lo sguardo annebbiato. «Cosa vuoi? Se sei dellassistenza sociale, vattene!»
«No. Sono Caterina, tua sorella.»
Leone rise amaramente. «Ah, la sorellina! Cosa ti porta qui? Leredità? Non cè niente, la casa è di mia madre!»
«Sono venuta per chiederti perdono. Come posso aiutarti?»
Leone rise di nuovo, con gli occhi pieni di dolore e disprezzo. Più lo guardava, più Caterina vedeva in lui i tratti del padre.
«Hai cento euro?» chiese allimprovviso.
Caterina tirò fuori cinquecento euro e li lasciò sul tavolo.
«Grazie! Ora puoi andare, ti ho perdonato! Se vuoi






