C’era una volta una ragazza diversa, piccola e buffa.

Un tempo avevamo una compagna di classe, una ragazza di nome Gianna. Gianna Pacia. Piccola, piuttosto brutta, con labbra grosse, sopracciglia folte e gambe storte. Proveniva da una famiglia molto problematica. Gianna era sempre presa di mira sia dai compagni che dagli insegnanti. Tuttavia, gli insegnanti provavano compassione per lei, mentre i compagni no. Un giorno, una delle ragazze vide un pidocchio sulla sua molletta e fu il panico! Anche se, pensandoci bene, poteva benissimo essere solo una macchia di mosca.

Insomma, Gianna era un’emarginata. Una classica emarginata. Si mormorava che fosse stata coinvolta nelle prime esperienze amorose dei ragazzi del liceo. Non si distingueva né per intelligenza, né per carattere forte. Adesso capisco quanto sia difficile emergere quando i genitori sono alcolizzati, con una sorella gravemente malata e squilibrata, costretta a indossare vecchi occhiali con un elastico perché quelli nuovi, forniti dal medico scolastico, li portava sempre via il padre, eternamente ubriaco. Alla maturità indossò un vecchio abito stropicciato, perché la madre non se ne preoccupò e non poteva farlo da sola. Nessuno le prestò un ferro da stiro. E nessuno la venne a prendere a scuola quella sera.

Dopo il diploma, è sparita. Non si è presentata a nessuna rimpatriata. Ce ne siamo dimenticati rapidamente – dopotutto eravamo dell’anno successivo, perché preoccuparci di Gianna? I suoi compagni invece la ricordavano sempre. Tutti erano visibili in paese, tranne Gianna. Si diceva fosse partita per il continente e vi fosse rimasta. La madre era ancora in paese, continuava a bere silenziosamente. Il padre era morto. Nessuno sapeva dove fosse la sorella. Non si trovava neanche sui social.

Insomma, non c’era. E ovviamente ti racconto di come l’ho incontrata.

– Sai, Giulia, è stato difficile. Molto difficile. C’erano giorni in cui non c’era niente da mangiare. Quando mia madre mandava patate dal paese, era un sollievo. Ho iniziato a lavorare subito. Un mese ho vissuto solo di tè, perché non osavo chiedere aiuto. Giusto quando avevo iniziato a lavorare. Lavoravo di notte e studiavo di giorno. Con il primo stipendio mi sono comprata del cibo per tutto il mese e degli occhiali. Occhiali, puoi crederci? Ora ne ho un centinaio! E ancora oggi non bevo tè, non riesco. Mi sembra che odori di povertà.

– Vedi – fa una gestualità – sono ancora bruttina. E anche nel vestire… Giulia, ho portato gli stessi slip per due anni, solo due paia. Perché i soldi bastavano appena per il cibo. Durante le sessioni di esami, spesso svenivo. Per la fame! – ride. Poi un giorno, alla fermata dell’autobus, un uomo mi ha raccolta, come un cane randagio. Mi ha avuto pietà. E io, Giulia, non potevo dire di no. Ho dormito per la prima volta in vita mia, probabilmente.

Al mattino ho lasciato una nota, ringraziandolo. Sto bene. Capivo bene di non essere la persona giusta. Mi consideravo meno di zero. Ma lui mi ha trovato. Abbiamo litigato furiosamente – urlavo di non compatirmi, che non ero un randagio! E il giorno dopo mi ha portato al Comune per sposarmi. Ha detto che sarei uscita dalla macchina solo da sposata.

Ride di nuovo.

Ci sono due bambine bionde su un uomo alto, somigliano molto alla madre. Leggere, piccole – sembrano piume piuttosto che bambini. Gianna, scuotendo un granello di polvere dalla sua gonna elegante, li abbraccia tutti e tre – andate a fare una passeggiata, cari miei, tornerò presto!

Gianna non è diventata un cigno splendente. Ha ancora le sopracciglia folte, ma abilmente ritoccate da uno stilista, le stesse labbra carnose senza rossetto, i capelli grigi tagliati in modo da non rovinare il suo viso, ma risultando femminili e vivaci. Gli occhiali con la montatura sottile completavano il suo aspetto.

-Come si chiamano?
Gianna, dopo una pausa, risponde:
– Tania e Giulietta. Mi dispiace, Giulia, tu e Tania eravate… corrette con me. Almeno eravate indifferenti. Insomma… hai capito, vero? Non avrei mai osato sognare una cosa simile – un marito, dei figli… Ho preso mia sorella dall’istituto. Mia madre ha provato a curarsi, ma non ci è riuscita, ormai non si ricorda più di me. Non mi ha riconosciuta nemmeno l’ultima volta. E lui – lancia uno sguardo al marito lontano – mi ha insegnato ad amare me stessa. Quante scene isteriche gli ho fatto! Quante volte gli ho urlato, perché io per lui, una sciagurata? Sapevo fare tutto in casa, ma ero totalmente ignorante. Sua madre mi ha accolto da subito, quasi dal primo giorno. Leggeva con me, mi faceva ascoltare musica, parlavamo giorno e notte. E nei momenti liberi mi insegnava a giocolare! La prima volta che l’ho vista, ero piegata in due dalle risate, talmente inaspettato! Con le arance.

Gli occhi di Gianna brillano così tanto che mi vengono i brividi. Ah, Gianna, quanto sono contenta per te! È proprio grazie a storie così che continuo a credere nell’amore. Anche se sono eccezioni.

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C’era una volta una ragazza diversa, piccola e buffa.