«Chi è la vera madre: la svokrov’ o quella che chiami “mamma”?»

«Chiami suocera “mamma”? Ma sei sicura di sapere chi è davvero tua madre?»

Ogni volta che sento qualcuno chiamare la suocera «mamma», mi viene la pelle d’oca. Non perché sono cattiva o invidiosa. Ma perché per me quella parola è sacra. Non la regali a destra e a manca. La mamma non è semplicemente una donna diventata parente grazie a un certificato. La mamma è colei che ti ha cresciuto, ha passato notti insonni, ha pianto di impotenza, ma si è alzata ogni mattina per lottare ancora per te.

Ho un’amica del cuore, Beatrice. Siamo amiche dall’infanzia, è stata testimone al mio matrimonio, e io a tutti e tre i suoi. Abbiamo affrontato tanto insieme, e nonostante la vita, i figli, i traslochi, ci teniamo strette. Spesso scherzo:

«Allora, Bea, aspettiamo che i figli vadano all’università e poi ci godiamo la pensione tra aperitivi e balli?»

L’altro giorno sono passata a casa sua per una commissione—le ho portato le medicine dalla farmacia, non poteva uscire perché l’auto era dal meccanico. Le porgo il sacchetto, e lei fa un cenno:

«Non sono per me. È la mamma che sta male.»

Sorrido, entro in cucina e quasi per abitudine esclamo:

«Buongiorno, zia Clara! Come sta?»

Ma quando la donna si gira, capisco: non è sua madre. È la madre del suo terzo marito. La suocera. E Beatrice la chiama «mamma» con dolcezza. Proprio come ha fatto con tutte le altre.

Ricordo come andò con la prima e la seconda. Con Luca, il primo marito, fin dal primo giorno chiamò sua madre «mamma».

«Ma sei pazza?» le sussurrai all’orecchio. «Non la conosci! Non è tua madre!»

Lei sorrise e disse:

«È strategia. Le farà piacere. Mi accetterà meglio. E Luca sarà contento. È semplice.»

Peccato che quella «mamma» poi le sputasse alle spalle. Quando Luca tornava ubriaco, dormiva chissà dove, e Beatrice la chiamava, lei si limitava a sospirare:

«Che vuoi, piccola? Un uomo è stanco…»

Due anni dopo, divorzio. Ebbero un figlio, ma nessuna delle «mamme» si interessò mai né a lui né a Beatrice.

Con il secondo fu diverso. Quella suocera si mise subito sulla difensiva:

«Quel ragazzino non ti serve. Portalo dove vuoi, pure in orfanotrofio. Soldi non ne ho.»

E ancora, Beatrice la chiamava «mamma». Finché non capì che dietro quel «mamma» c’era solo crudeltà senza cuore. Divorziarono, per fortuna senza figli.

Ora è al terzo matrimonio, e tutto si ripete. Le stesse parole dolci. La stessa speranza ingenua che, dicendo «mamma», quella donna si scioglierà e diventerà famiglia.

Ma no. Non funziona così.

So di cosa parlo. Anch’io ho una suocera. E noi… non ci limitiamo ad andare d’accordo. Ci rispettiamo davvero. Parliamo di tutto, ridiamo insieme, raccogliamo le ciliegie nel suo giardino o commentiamo le serie tv. Ma ci chiamiamo per nome. E questo non ci impedisce di essere più vicine di tanti legami di sangue.

Perché «mamma» non è un titolo da usare per convenienza. Quella parola è come una medaglia. Va guadagnata. Non si compra con un sorriso o una finta gentilezza. La vera mamma non è quella che entra nella tua vita con un marito. È quella che resta per sempre.

E sì, a volte la suocera diventa più presente della madre naturale. Succede. Ma è raro. Un’eccezione, non la regola.

Per questo, quando sento:

«Mamma, vuoi un tè?»
«Mammina, come stai oggi?»

Mi chiedo sempre la stessa cosa: è amore? O è solo l’abitudine di fingere?

La lezione è chiara: le parole hanno peso. E chiamare «mamma» chi non lo merita svilisce il significato più profondo di quel nome.

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