Chiamate Ludmila, per favore…
Fin dal mattino, Ginevra fu perseguitata dalla sensazione che qualcosa stesse per accadere. Ma tutto ciò che doveva succedere era già successo da tempo. L’amore, la famiglia, e ora era sola. Il marito, con cui aveva vissuto trentasei anni insieme, era morto due anni prima. Il figlio aveva la sua famiglia, due bambini, tutti sani e salvi. Semplicemente, era il presentimento di una festa, finalmente capì. Domani era l’8 marzo.
E subito il pensiero corse a lui, al marito. Nessuno le avrebbe portato mimose o tulipani. Ma come faceva a dimenticarsi di Sandro, suo figlio? Sicuramente sarebbe passato a farle gli auguri.
Una volta avevano una casetta in campagna. Un piccolo rustico su quei sei appezzamenti di terra che i genitori avevano comprato dopo le crisi economiche di un tempo. Mentre lavorava, andava lì in vacanza o nei fine settimana. Poi, quando Ginevra andò in pensione, passò lì quasi tutta l’estate, tornando in città solo per lavarsi e fare la spesa.
Quell’anno l’estate fu torrida e secca. Doveva annaffiare l’orto ogni giorno. Il marito arrivò come sempre, dopo il lavoro, di venerdì. Ginevra notò subito il suo pallore.
«È tutto a posto, fa solo un caldo boia», rispose lui alle sue domande, scrollandosi di dosso la preoccupazione.
«Riposati, finisco io, manca poco. Siediti all’ombra sulla panchina», disse Ginevra.
Lui si sedette, appoggiando la schiena al muro caldo del sole, guardandola mentre annaffiava con il tubo. Quando lei si avvicinò, capì subito che qualcosa non andava. Sembrava assopito. Ma quando gli toccò una spalla, lui cadde di lato. Morì nel sonno, su quella panchina.
In autunno, Ginevra vendette la casetta. Non poteva più tornarci. Le sembrava sempre di vederlo lì, seduto. Il figlio la sostenne.
«Era ora di liberarsene. Perché farsi il sangue amaro, se ormai si trova tutto al supermercato?»
Lui e la sua famiglia andavano al mare in vacanza. I soldi della vendita, Ginevra li diede a lui. Con due figli, ne aveva più bisogno. Lei con la pensione bastava. Voleva tornare a lavorare, ma il figlio la dissuase.
«Ti pagherebbero briciole, e ti logoreresti per nulla», le disse.
Era una frase che ripeteva sempre suo marito.
«Oggi insegnare a scuola richiede nervi saldi. Se ti mancano le lezioni, occupati dei nipoti. Hai me. Se serve, ti aiuto».
E così viveva sola. Certo, mancavano le mani di un uomo. Ma quando qualcosa si rompeva o un rubinetto perdeva, il figlio chiamava l’idraulico.
Negli ultimi anni, col marito andava d’amore e d’accordo. Ma da giovani non era stato facile. Litigavano così tanto che quasi divorziarono. Lui non era uno smaliziato, ma le donne lo intuivano. Una volta, Ginevra perse la pazienza, gli disse tutto e gli indicò la porta. «Meno male che non ha portato a casa qualche malattia», pensò.
Lui preparò la valigia, si sedette sul divano per l’ultimo momento. Poi entrò Sandro, tornato da scuola. Aveva tredici anni. Vide il padre con la valigia e capì tutto. Era grande, ormai, sentiva e capiva. Anche lui era stanco delle loro liti.
«Mi odierai?», chiese il padre.
«Sì», rispose il figlio, sbattendo la porta della sua camera.
«Non posso. Non posso», disse il marito, battendo le mani sulle ginocchia. Si alzò e spinse la valigia dietro al divano. «Mi fai da mangiare?», domandò, senza guardarla.
Lei era stanca delle scenate. Che differenza faceva se se ne andava oggi o domani? Anzi, meglio così. Poteva andarsene mentre loro erano a scuola. Ginevra apparecchiò, chiamò Sandro. Mangiarono in silenzio.
Il giorno dopo, Ginevra tornò tardi dal lavoro. Appena entrata, corse a controllare dietro il divano. La valigia era sparita. Un’onda di amarezza la travolse. Tornò nell’ingresso, si sfilò lentamente la giacca. Poi alzò lo sguardo e vide la valigia sull’armadio a muro. Corse in camera e aprì l’armadio: camicie e pantaloni del marito erano appesi. Il cuore si sciolse.
Ma quando lui tornò, Ginevra disse con sarcasmo: «Hai fatto male a disfare la valigia, non si sa mai».
Lui tacque, ma smise di fermarsi al lavoro, e se capitava, chiamava per avvisare. Da allora litigarono meno. Negli ultimi anni, andavano d’amore e d’accordo. «Perché non è stato così fin dall’inizio?»
Ginevra cercava di ricordare solo il bene. A che serviva rivangare il male? I rancori se li era portati via il marito. Certo, a volte la malinconia la assaliva, ma passava presto.
La solitudine aveva i suoi vantaggi. Puliva meno spesso. Chi avrebbe sporcato? Cucinava cose semplici. Leggeva molto, guardava serie. Il marito le odiava. Lui stava sul divano, guardava il calcio e i telegiornali. Lei si accoccolava su una sedia di legno in cucina, fissando il piccolo televisore sul frigorifero finché il collo non le si bloccava. La cucina era stretta, non c’era spazio per un televisore.
Ora invece stesa sul divano come una regina, guardava quel che voleva. Aveva pensato a un gatto. Ma peli dappertutto, e poi non amava gli animali.
Domani era l’8 marzo. Forse una torta? Ma chi l’avrebbe mangiata? Il figlio sarebbe venuto, certo. Meglio cucinare lei qualcosa. E Ginevra iniziò a cercare il quaderno delle ricette.
Fiori? Gettò un’occhiata alla stanza. No, li avrebbero fatta sentire ancora più sola. I fiori doveva portarli un uomo. E poi, a che serviva? Gettarli dopo due giorni?
Ginevra preparò muffin al cioccolato e mandarino. I nipoti li adoravano. Li avrebbe mandati con Sandro. Stanca, si sedette davanti alla tv. Un film che aveva già visto. Gli occhi si chiusero e si assopì.
La svegliò il campanello. Sobbalzò. Il cuore le batteva come un uccello impaurito. Nessuno veniva più a trovarla, si era disabituata agli ospiti. Il campanello suonò di nuovo, incalzante.
Sandro? No, lui aveva le chiavi. Suonava sempre prima, e se non apriva, entrava da solo.
Allo specchio nell’ingresso, Ginevra si sistemò i capelli e aprì. Sulla soglia c’era un uomo sconosciuto con un mazzolino di tulipani. Non bello, più o meno della sua età. Ben vestito, capelli con qualche filo bianco, robusto ma senza pancia. Niente di speciale.
«Cerca qualcuno?», chiese Ginevra.
«Chiamate Ludmila, per favore», sorrise lui.
«Qui non c’è nessuna Ludmila, né c’è mai stata. Si sbaglia», disse Ginevra, cercando di chiudere la porta.
«Aspetti!», la fermò l’uomo. «Via Verdi, numero venti, appartamento…»
«Esatto, è il mio indirizzo. Ma Ludmila non ci ha maiMa forse, pensò Ginevra mentre chiudeva la porta con un sorriso, quel viaggio al mare sarebbe stato l’inizio di qualcosa di nuovo.