Nella quiete di una notte avvolta nelle ombre, la città di Firenze respirava a fatica, interrotta solo dai rari ululati delle ambulanze. Tra le mura dellospedale cittadino, dove ogni corridoio conservava leco di sofferenze passate, infuriava una tempesta non meno violenta di quella che si scagliava contro le finestre. Quella non era una notte come le altreera una notte al limite, come se il destino stesso avesse deciso di mettere alla prova chiunque osasse sfidarlo.
Nella sala operatoria, illuminata dalla luce fredda e tagliente delle lampade, il dottor Andrea Morettiun chirurgo con ventanni di esperienza, le cui mani avevano salvato centinaia, se non migliaia di vitecombatteva la sua battaglia. Da tre ore era inchiodato al tavolo operatorio, le sue mani si muovevano con la precisione di un orologiaio, lo sguardo concentrato come se leggesse non lanatomia del corpo, ma il filo sottile che separa la vita dalla morte. La stanchezza pesava come un mantello sulle sue spalle, ma lui sapeva che la debolezza era un lusso che non poteva permettersi. Ogni movimento, ogni decisione aveva il peso delloro. Si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano, senza distrarsi. Accanto a lui, silenziosa come unombra, cera linfermiera Ginevraconcentrata, pronta, gli occhi pieni di timore reverenziale. Gli passava gli strumenti come se consegnasse non acciaio, ma speranza.
“Sutura,” sussurrò Moretti, la sua voce, abituata ai comandi, suonava ora come un ordine al destino: non arrenderti.
Loperazione stava per concludersi. Ancora pochi minuti e il paziente sarebbe stato al sicuro. Ma in quel momento, come se la realtà stessa avesse deciso di intervenire, la porta della sala operatoria si spalancò con un tonfo. Sulla soglia apparve linfermiera capo, il viso contratto dallansia, il respiro affannoso.
“Andrea! Subito! Una donna incosciente, traumi multipli, sospetta emorragia interna!” gridò, e nella sua voce cera una paura rara da sentire tra quelle mura.
Moretti non esitò un istante. Si rivolse allassistente: “Finite qui,” e con un gesto si tolse i guanti. “Ginevra, con me!” ordinò, già dirigendosi verso luscita.
Nel pronto soccorso regnava il caos. Laria era satura di urla, passi affrettati, il suono del metallo e lodore di disinfettante. Su una barella, come una bambola rotta, giaceva una giovane donna sui trentanni. Il suo viso era pallido come la morte, la pelle segnata da lividi, come se qualcuno avesse scritto sul suo corpo con inchiostro di dolore. Moretti le si avvicinò come a un campo di battaglia. I suoi occhi, abituati a vedere l