Cicatrici e amicizia: racconto di un’anima indomita

*Cicatrici e amicizia: la storia di un’anima invincibile*

Io e Lisa siamo sedute sul suo balcone al quindicesimo piano di un palazzo nuovo nella periferia di Milano. Lei, suo padre e sua nonna si sono trasferiti qui quattro anni fa. Suo papà è un avvocato in un’azienda edile che ha costruito proprio questo condominio. Hanno scelto questo appartamento con un balcone spazioso apposta per Lisa, per assecondare la sua passione. Il padre se lo poteva permettere. Il balcone è coibentato: pavimento riscaldato, termosifoni, pareti rivestite di piastrelle lisce, piacevoli al tatto. Lisa è ossessionata dalle piante d’appartamento e dai pesci ornamentali. In casa ci sono cinque acquari — uno in ogni stanza e uno qui, sul balcone.

Quello sul balcone è angolare, con luci soffuse e un sistema di filtrazione complicatissimo di cui io non capisco nulla, mentre Lisa potrebbe parlarne per ore. Dentro c’è un castello di ceramica con archi e torrette. I pesci nuotano fuori dalle finestrelle come sentinelle di un regno subacqueo. Quattro pesci arancioni vivaci, il cui nome dimentico sempre, e uno speciale — un plecostomus bronzeo che Lisa chiama “il netturbino dell’acquario”.

Lisa sa tutto dei suoi pesci. È attiva sui forum di acquariofilia, scrive articoli per siti specializzati, dove la rispettano. Con la stessa passione si dedica alle piante. Dopo il trasloco, le sue stanze si sono trasformate in una giungla rigogliosa. Sul balcone cresce l’edera, pendono vasi di violette, ci sono bonsai e abeti in miniatura.

Siamo sedute in quest’oasi verde, guardando dalla grande vetrata il fiume Adda, i tetti delle case e un parco in lontananza. Sulla destra, in basso, rimbomba l’autostrada che porta a Bergamo e Brescia. Lisa mi racconta di una gita con suo padre per raccogliere frutti di bosco. Sono arrivati in posti così remoti che solo il loro SUV è riuscito a passare. Hanno riempito i cestini e poi, con la nonna, hanno passato tre giorni a fare marmellate.

«Peccato che papà ora sia quasi sempre via. Lavora anche nei weekend. Il tempo è splendido, ma presto arriveranno le piogge e non potremo più uscire. Anna, proviamo ancora a farmi la foto?» Lisa mi guarda supplichevole.

Sospiro. Andiamo in camera sua — verde e accogliente come il balcone. Si siede davanti a uno sfondo bianco improvvisato. Faccio qualche scatto, poi tentiamo di ritoccarli sul portatile. Le servono foto per i documenti, ma sembra un’impresa impossibile.

Le foto non vengono bene. Forse sono negata con la fotografia, o forse il problema è un altro.

«Lisa, basta fissarti. C’è uno studio fotografico sotto casa, vado a chiedere.»

Lisa accetta a malincuore. Si rannicchia sulla poltrona del balcone, si avvolge in una coperta e si gira verso la finestra.

Prendo le chiavi e scendo. Il fotografo è un ragazzo giovane, annoiato alla reception. Gli spiego che ci servono foto per i documenti, ma da fare in casa, al quindicesimo piano.

«Costerà…»

«Non importa il prezzo. Ci servono oggi, urgenti.»

Saliamo. Il fotografo si blocca davanti all’acquario sul balcone, affascinato dai pesci. Mi agito.

«Sa… cerchi di non far caso… La ragazza ha subito un incidente al volto, per questo non è venuta allo studio. Per favore.»

«Nessun problema. Il cliente paga, il resto non mi riguarda.»

Chiamo Lisa. Esce avvolta nella coperta come un bozzolo, si siede in silenzio davanti allo sfondo. Il fotografo regola la macchina fotografica, la osserva con curiosità.

«Pronti. Togli la coperta.»

Lisa la scivola via lentamente, si raddrizza. Il volto del fotografo impallidisce, nei suoi occhi lampeggia lo shock.

«Cavolo…» sbottiglia lui.

«Scatti,» dice Lisa, cupa.

Lui scatta in fretta e lo accompagno alla porta.

«Tua sorella?»

«No, la mia migliore amica. È incredibile, forte…»

«Ci credo. Ma la prossima volta avvisami prima.»

«L’ho fatto…»

«Sì, ma vederla… Da quant’è così?»

«Ventidue anni.»

«Dio… Poveretta.»

Gli allungo i soldi. Li rifiuta con un gesto:

«Tra un’ora passa, le foto saranno pronte.»

Torno da Lisa. È di nuovo sul balcone, avvolta nella coperta, le spalle che tremano — sta piangendo. La abbraccio, le accarezzo i capelli, la cullo come una bambina.

«Non importa, Lisa. Tutto passa, passerà anche questo. Guarda, le foglie nel parco sono già gialle. Vuoi che vada a prendere quelle del tuo acero preferito? O del gelato? Facciamo festa?»

«Il gelato è già in freezer, Anna. Mangialo tu… Io non ne ho voglia.»

Dieci anni fa, camminavo per un corridoio dell’ospedale di Milano che conoscevo bene. Infermiere, dottori e inservienti mi sorridevano, salutavo tutti.

Alla reception c’era un’infermiera anziana:

«Anna, quanto sei rimasta a casa? Quattro mesi? Torni per un altro ritocco?»

«Sì, Teresa. Spero l’ultimo.»

«Vediamo dove metterti… Il primo reparto è in ristrutturazione, siamo pieni. Persino nella pediatria hanno stretto i lettini.»

Diedi un’occhiata alla stanza dei bambini. Dieci lettini invece di sei, tutti occupati.

«C’è posto nella dodici. Va bene?»

«Una semiprivata? Certo!»

Teresa sospirò, sorrise storta.

«Andiamo. C’è una brava ragazza, Lisa Romano. La tua età. Solo… ci vuole un po’ per abituarsi. Anche lei è ustionata. Tanto.»

«Ustionata, e allora? Ne ho viste di peggio.»

La stanza dodici era quasi un lusso. Doccia, bagno, un frigo piccolo, due letti regolabili. Si poteva persino mettere la tv.

Entrai. Il mio letto vicino alla porta era libero. Alla finestra, una sagoma avvolta in una coperta fin sopra la testa. L’infermiera accese la luce, mi aiutò a sistemare le cose. La ragazza taceva, sbirciando da sotto la coperta. Si vedevano solo gli occhi.

«Lisa, questa è Anna. È gentile, vieni fuori.»

L’infermiera tirò via la coperta. Immobilizzata, la osservai. Lisa non aveva un volto. Niente capelli, niente orecchie, al posto del naso due buchi, le labbra quasi invisibili. Un collare di gommapiuma le sorreggeva il collo. Niente guance — solo cicatrici, come quelle che ho io su schiena e gambe. Ma le mie le coprono i vestiti. Le sue…

I suoi occhi — grandi, marrone scuro — sembravano estranei su quel volto sfigurato.

Mi ripresi, mi avvicinai e dissi:

«Ciao, piacere di conoscerti. Facciamo amicizia?»

La voce di Lisa era ovattata, le parole poco chiare. Abituarsi a lei non fu semplice. Ma mi stupiva: sapeva l’inglese, scriveva fiabe per bambini, capiva d’arte.

Entro sera quasi non notavo più il suo aspetto. Cinque anni in ospedale mi avevano abituato a tutto. Lisa eraLisa mi prese la mano con le sue dita segnate dalle cicatrici, e in quel silenzio carico di complicità capii che non servivano parole per sentirci salve.

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