«Com’è volata via la vita… E come, senza accorgercene, siamo diventati inutili ai nostri stessi figli»
Maria Rossi era sempre stata una donna forte, composta, con una voce tranquilla e occhi buoni. Aveva messo al mondo tre figli, li aveva cresciuti, educati, li aveva visti sposarsi e partire per la loro vita indipendente. Ora sedeva alla finestra della sua casa di campagna, guardando il cielo autunnale, mentre sfogliava vecchie lettere, cartoline e fotografie ingiallite. Accanto a lei c’era una coperta di lana, e sulle ginocchia teneva una scatola dove conservava tutto ciò che aveva di più caro: foto dei suoi figli, cartoline dai nipoti, vecchi ritagli di giornale che menzionavano almeno in piccolo la sua famiglia.
Il figlio maggiore viveva all’estero, era partito ancora giovane, subito dopo il servizio militare. Da allora erano passati tanti anni. Non era mai tornato a trovarla. Solo qualche foto sui social, rare lettere, e messaggi brevi e freddi per le feste. Maria non lo biasimava. Lo capiva: la vita, il lavoro, la famiglia, le preoccupazioni. Ma il cuore le faceva male. Davvero male.
La figlia di mezzo, Sofia, aveva sposato un militare. Trasferimenti continui, chiamate rare, visite brevi e affrettate. A volte venivano a trovarla, ma di rado, e mai per molto tempo. Il marito di Maria, Paolo, aveva sempre avuto rispetto per il genero, era orgoglioso che la figlia si fosse sistemata. Quando arrivavano, negli occhi di Sofia brillava la felicità. E questo, forse, era l’importante.
Ma ciò che le pesava di più era la più piccola, Giulia. Dopo il divorzio, Giulia era andata in città, lasciando il bambino alle cure della nonna. Maria stessa le aveva detto: “Sei ancora giovane, bella, trova la tua strada. Il nipotino lo tengo io.” La ragazza se ne andò, studiò, trovò lavoro. E dopo un paio d’anni, riprese il figlio con sé.
Quando Giulia tornò per il bambino, lui si aggrappava alla gonna della nonna, non voleva lasciarla. Piangeva piano, senza far rumore—solo le guance bagnate. Maria allora serrò i denti e tacque. Non osò opporsi.
Passarono tre anni. Il cuore le batteva sempre più forte per la figlia e il nipote. Un giorno non resistette più:
“Paolo, vado da Giulia. Anche solo per un paio di giorni. C’è qualcosa che non mi lascia pace.”
Lui annuì. Anche lui era preoccupato, ma si sentiva male, l’autunno lo aveva piegato. Così, all’alba, l’accompagnò alla stazione, le mise in mano un sacchetto con i panini e la baciò sulla fronte.
“Fai attenzione, Maria. Chiamami quando arrivata.”
Arrivò. Con fatica, ma arrivò. Due borse sulle spalle con i regali per tutti, in mano un sacchetto con conserve, marmellate e calzini fatti a maglia. Chiamò la figlia un’ora prima. Giulia rispose secca:
“Mamma, perché non mi hai avvertita prima? Ho da lavorare, devo andare a prendere mio figlio a scuola, la spesa… Qui tutto è diverso, non è come in campagna!”
“Scusami, piccola,” rispose piano Maria. “Volevo fare una sorpresa…”
All’arrivo, la accolse il nipote. Ormai un ragazzino. Alto, robusto. Somigliava al nonno. Ma gli occhi erano diversi. Freddi, distanti.
“Ciao, nonna,” disse con educazione, ma senza calore. L’abbraccio fu sgarbato.
La casa era pulita, moderna, ma senza calore. Giulia cucinò la minestra, mise cinque polpettine in tavola. Maria ne mangiò una. Poi allungò la mano per prenderne un’altra—e si fermò. Si vergognò. Le venne in mente quando lei stessa riempiva pentole intere per le feste, perché i suoi figli potessero mangiare a sazietà. Qui invece tutto era misurato.
La sera, lei e il nipote guardarono vecchi video, foto delle recite. Lui fu gentile, ma estraneo. Giulia intanto si assentava sempre più spesso—lavoro, amiche, impegni.
Trascorsero tre giorni. Maria si sentiva un’ospite. Di troppo. Superflua. Un giorno sentì il nipote chiedere alla figlia:
“Mamma, quando viene lo zio Andrea? Aveva promesso di portarmi a vedere la partita.”
“Presto,” rispose lei. “Quando la nonna se ne va, lui arriva.”
E Maria capì tutto. Fino in fondo. Con un dolore al cuore.
Preparò le valigie in silenzio. Si vestì. Si fermò sulla porta. Giulia uscì dalla cucina:
“Mamma, dove vai? Il treno è domani!”
“Parto prima. Non preoccuparti. Di’ a tuo figlio che il nonno saluta. Non temere, sono arrivata qui—arriverò anche a casa. Grazie per l’ospitalità.”
Per tutta la strada verso la stazione tacque. Sul treno, seduta vicino al finestrino, guardò la notte. Le lacrime le rigavano il viso.
Com’è volata via la vita… Quanto abbiamo dato—e come, con facilità, siamo diventati inutili. Loro sono adulti. Hanno la loro vita. E noi, genitori… siamo rimasti ai margini.
Sul binario, l’aspettava Paolo. La strinse forte, la tenne stretta.
“Maria, dove sei stata! Ero fuori di me. Ho perso persino peso.”
Lei sorrise. Gli occhi si riempirono di lacrime—ma questa volta di felicità.
“Andiamo a casa, Paolo. A casa… Almeno lì, qualcuno ci aspetta ancora.”