**Diario di Ginevra**
Ho imparato da tempo ad amare Matteo in silenzio. Era più semplice così, piuttosto che rovinare vent’anni di amicizia con una confessione goffa.
Solo una volta nei suoi occhi ho visto qualcosa di nuovo. Non la solita dolcezza amichevole, ma qualcosa di più profondo, inquietante, quasi doloroso. L’ho percepito subito—ci siamo sempre capiti senza parole.
«È successo qualcosa?» chiesi, posando il libro.
Le sue labbra tremarono, come se volesse dire qualcosa di importante, ma poi cambiò idea.
«Niente,» rispose, voltandosi bruscamente verso la finestra.
Un silenzio pesante, scomodo, si stese tra noi.
«Va bene, vado,» disse alla fine, alzandosi.
Non lo trattenni. Annui soltanto. Cosa potevo dire? In quel momento, entrambi eravamo ancora legati ad altri.
***
Ci conoscevamo da una vita.
A 14 anni giurammo di essere amici fino alla morte. A 18 ridevamo dei compagni innamorati. A 25 lui fu testimone al mio matrimonio. A 30 lo trascinai fuori da un bar ubriaco dopo il suo divorzio.
La prima volta? Io avevo sette anni, lui nove. Il gruppo del quartiere giocava a nascondino, e io, la più piccola, inciampai e caddi. I ragazzi più grandi iniziarono subito a prendermi in giro: «Piagnona!»
E allora lui, di solito così tranquillo, colpì il più prepotente così forte che finì in una pozzanghera.
«Non toccarla più,» disse, asciugandosi il labbro sanguinante.
Da allora non ci siamo più lasciati.
Il cortile del vicinato, le prime sigarette dietro ai garage, le corse in mensa a scuola—era tutto nostro. Poi l’università, in città diverse, ma con l’abitudine di chiamarci a tarda notte per condividere qualcosa di importante.
Eravamo amici. Veri. Quelli che non spariscono né per i primi amori, né per i matrimoni, né per le litigate.
Io avevo un marito perfetto, Davide. Con Matteo, però, non andava d’accordo. Sua moglie si chiamava Valeria. Bella, intelligente, ma con me, la “compagna d’armi”, si era vista una sola volta, al loro matrimonio. Disse subito: «Questa ragazza non è delle mie parti.» Insomma, fare amicizia tra famiglie, come sognavamo da bambini, non funzionò.
Ma rimanemmo comunque l’una per l’altro quella persona speciale. Quella a cui puoi telefonare alle tre di notte dicendo «Sto male» e sapere che ti ascolterà. E, se serve, arriverà con una tazza di tè caldo o qualcosa di più forte.
Un’amicizia così vale più di qualsiasi soldo.
Quando Davide mi lasciò, portandosi via metà dei mobili e la mia fiducia nel «per sempre», Matteo era lì. Non mi lasciò bere da sola, sopportò le mie crisi, ascoltò le mie domande infinite: «Come ho potuto sbagliarmi così?»
Davide se n’era andato con una stagista. Sembra banale, ma io fui l’ultima a saperlo.
«Davvero non te ne sei accorta?» si stupirono le amiche.
No. Non me n’ero accorta. Perché nei giorni in cui Davide era “al lavoro”, io cenavo con Matteo. Ridevo delle sue battute, mi lamentavo della stanchezza, mi sentivo… me stessa.
Matteo fu il primo a sapere della fine. Arrivò subito dopo la mia chiamata, con un fioco «Se n’è andato».
«Sono stanca di fingere di essere felice,» piangevo, fissando la finestra.
«Lo so,» rispose lui.
E capii: lo sapeva davvero. Da sempre.
Con Valeria fu diverso.
Lei se ne andò sbattendo la porta:
«Non mi amerai mai come ami lei!»
Lui non replicò.
Quando me lo raccontò, mi indignai:
«Che stupidaggini! Siamo solo amici!»
«Solo amici,» ripeté, e nei suoi occhi c’era qualcosa che mi tolse il fiato.
«Lei non ti conosce,» dissi, versandogli un altro bicchiere. «Il vero te.»
«E tu? Tu mi conosci?»
Rabbrividii. Mi ricordai di quando, anni prima, avevo scritto nel diario: *«E se gli confessassi tutto? Lui si allontanerebbe. Nei suoi occhi, disagio. Poi, messaggi educati una volta al mese. E incontri con amici in comune, evitando di incrociare lo sguardo.»*
Avevo paura di perdere l’amico di una vita. Non volevo rischiare l’unico punto fermo che avevo. Matteo era l’unico che mi conosceva e mi accettava così, col mio carattere… diciamo, vivace. Lo apprezzavo, e per lui avrei fatto qualsiasi cosa. O quasi.
Ma… l’amicizia non è amore. E se non funzionasse? Se poi trovasse un’altra stagista? Come avrei fatto senza di lui? Come fanno gli altri, senza qualcuno come lui?
«Siamo troppo diversi,» pensavo quando litigava col cameriere sulla cottura della bistecca. Era pignolo fino all’eccesso.
«Non siamo fatti l’uno per l’altra,» pensava lui, vedendomi sbadigliare durante il suo film d’azione preferito.
Ma non capivamo che nelle nostre discussioni nascevano barzellette che solo noi ridevamo. Che nei disaccordi c’era quella scintilla che mancava nei nostri rapporti “perfetti” con gli altri.
Ci amavamo di nascosto, come se non ci concedessimo di rompere un antico giuramento d’infanzia.
***
La verità arrivò all’aeroporto. Stavo partendo per Parigi—nuovo lavoro, nuova vita. Forse per sempre.
«Hai dimenticato questo,» disse Matteo, porgendomi la sciarpa lasciata a casa sua.
«Tienila,» risposi. «Come ricordo.»
Nei suoi occhi passò qualcosa che avevo visto tante volte, ma a cui non volevo dare un nome.
«Non voglio un ricordo,» disse improvvisamente. «Voglio te.»
Due parole. Vent’anni di attesa. Una vita che finalmente aveva senso.
«Se voli via ora,» sussurrò, «non ne uscirò vivo.»
Non “mi dispiacerà”. Non “sarò triste”. Proprio—”non ne uscirò vivo”.
Il mio viso si illuminò. Non subito. Prima capii cosa significava quello sguardo. O meglio, mi permisi di capirlo. Poi realizzai di essere felice.
«Sai,» dissi. «Per queste parole, posso anche perdere un volo.»
«Allora resti?» Mi strinse. «Davvero?»
Mentre tornavamo a casa, pensai: *«Una volta avevo tutto: marito, casa, sicurezza. Ma mi mancava l’unica cosa per cui si bruciano i ponti, si perde la testa, si rischia tutto… L’amore. Senza quello, ogni gioia è nulla.»*