– Cosimo, ma sei fuori di testa? Credi che ti abbia invitato a vivere da me per i soldi? Mi fai pena, ecco tutto.

**Diario personale**

“Enrico, ma sei fuori di testa? Credi che ti abbia invitato a vivere da me per i soldi? Ho pietà di te, ecco tutto.”

Enrico sedeva sulla sedia a rotelle e fissava la strada attraverso le finestre impolverate. Non era fortunato: la finestra della sua stanza dospedale dava su un cortile interno, dove cera un piccolo giardino con negozietti e aiuole, ma quasi nessuno lo frequentava.

E poi era inverno, e i pazienti uscivano raramente a fare una passeggiata. Enrico era solo in stanza. Una settimana prima, il suo vicino, Luca Ferrara, era stato dimesso, e da allora la solitudine si era fatta ancora più pesante.

Luca era un ragazzo socievole, pieno di allegria, e conosceva un milione di storie che raccontava con lentusiasmo di un vero attore. E infatti lo era: studiava teatro al terzo anno.

Insomma, con Luca era impossibile annoiarsi. Inoltre, sua madre veniva ogni giorno, portando dolci fatti in casa, frutta e caramelle, che Luca condivideva generosamente con Enrico.

Con la partenza di Luca, la stanza sembrò perdere ogni traccia di calore familiare, e ora Enrico si sentiva più solo e indesiderato che mai.

I suoi pensieri malinconici furono interrotti dallarrivo dellinfermiera. Guardandola, si rattristò ancora di più: non era la giovane e sorridente Daniela, ma la severa e sempre scontrosa Luisa Arcangeli.

In due mesi di ospedale, Enrico non laveva mai vista ridere o sorridere. E la sua voce era allaltezza dellespressione: aspra, brusca, sgradevole.

“Allora, che fai lì impalato? A letto!” gridò Luisa Arcangeli, tenendo in mano una siringa carica.

Enrico sospirò rassegnato, girò la sedia e si avvicinò al letto. Con un gesto rapido, Luisa lo aiutò a sdraiarsi e lo girò a pancia in giù.

“Togliti i pantaloni,” ordinò. Enrico obbedì e… non sentì nulla. Luisa era infallibile con le iniezioni, e per questo, ogni volta, Enrico la ringraziava mentalmente.

“Chissà quanti anni ha,” pensò, osservandola mentre cercava una vena sul suo braccio magro. “Devessere già in pensione. Con quella misera pensione, deve lavorare, ecco perché è così arrabbiata.”

Intanto, Luisa inserì lago in una vena pallida e quasi invisibile, facendolo sussultare appena.

“Finito. Il dottore è passato oggi?” chiese improvvisamente, già pronta a uscire.

“No, forse più tardi…” rispose Enrico scuotendo la testa.

“Aspetta allora. E non stare alla finestra, cè corrente. Sei già magro come un chiodo,” disse Luisa prima di uscire.

Enrico avrebbe voluto offendersi, ma non ci riuscì: nelle sue parole, oltre alla solita rudezza, sembrava nascondersi una certa premura. Per quanto strana fosse, era lunica che aveva…

Enrico era orfano. I suoi genitori erano morti quando aveva quattro anni. Nel loro casolare di campagna era scoppiato un incendio, e lui era lunico sopravvissuto.

Unustione sulla spalla e il polso mal rimarginato gli ricordavano quella tragedia: sua madre, per salvarlo, lo aveva spinto fuori dalla finestra infranta, nella neve, un attimo prima che il tetto crollasse, seppellendo tutta la famiglia.

Così finì in un orfanotrofio. Aveva parenti, ma nessuno si era fatto avanti per prenderselo.

Da sua madre aveva ereditato un carattere dolce, sognatore, e occhi verdi luminosi. Da suo padre, la statura alta, il passo veloce e il talento per la matematica.

Ricordava poco dei suoi genitori, solo brevi frammenti: sua madre che rideva a una festa paesana, lui sulle spalle di suo padre, il vento caldo destate…

Ricordava anche un grosso gatto rosso, che si chiamava Micio o forse Tigro… Ma non gli era rimasto altro: neppure un album di foto, tutto bruciato.

Nessuno veniva a trovarlo in ospedale. A diciotto anni, lo Stato gli aveva assegnato una stanza luminosa in un dormitorio, al quarto piano.

Vivere da solo gli piaceva, ma a volte la solitudine era così forte da fargli venire voglia di piangere. Col tempo si era abituato, trovando anche dei lati positivi.

Ma il passato tornava a galla: vedendo bambini con i genitori, nei parchi o al supermercato, Enrico era assalito da pensieri amari.

Dopo le superiori, avrebbe voluto iscriversi alluniversità, ma i voti non bastarono. Finì in un istituto tecnico. Gli piaceva, ma con i compagni non legò: timido e riservato, preferiva i libari alle feste.

Lo stesso con le ragazze: la sua timidezza non attirava attenzione, e a diciotto anni sembrava ancora un ragazzino. Presto divenne l”outsider” del gruppo, ma a lui non importava.

Due mesi prima, correndo su un marciapiede ghiacciato, era scivolato in una scala mobile e si era rotto entrambe le gambe. Le fratture erano complicate, ma negli ultimi giorni stava migliorando.

Sperava nella dimissione, ma era preoccupato: a casa non cera ascensore né rampe per disabili. E la sedia a rotelle sarebbe servita ancora a lungo…

Dopo pranzo arrivò il dottor Romano Abate, lortopedico.

“Dunque, Enrico, buone notizie: le fratture stanno guarendo. Tra qualche settimana potrai usare le stampelle. Non serve più che resti qui, continuerai le cure in ambulatorio. Fra unora avrai i documenti. Qualcuno verrà a prenderti?”

Enrico annuì in silenzio.

“Bene. Chiamo Luisa, ti aiuterà a fare le valigie. Stammi bene, Enrico, e cerca di non rivederci.”

“Cercherò.”

Il dottore gli strizzò locchio e uscì. Enrico cominciò a chiedersi come farebbe. Poi arrivò Luisa Arcangeli.

“Che aspetti? Sei dimesso,” disse porgendogli lo zaino sotto il letto. “Prepara le tue cose. La signora Nina deve cambiare le lenzuola.”

Enrico riempì lo zaino, mentre Luisa lo osservava.

“Perché hai mentito al dottore?” chiese, inclinando la testa.

“Di cosa parla?” fece finta di non capire.

“Non fare il finto tonto, Enrico. So che nessuno verrà a prenderti. Come farai a casa?”

“Mi arrangio.”

“Non camminerai per almeno due settimane. Come vivrai?”

“Non sono un bambino.”

Luisa si sedette accanto a lui e lo fissò.

“Enrico, forse non è affar mio, ma… con quelle ferite avrai bisogno di aiuto. Non puoi farcela da solo. Non offenderti, dico la verità.”

“Me la caverò.”

“No, non te la caverai. Lavoro in medicina da anni. Perché fai il testardo?”

“E lei perché mi dice questo?”

“Perché potresti venire a stare da me. Vivo fuori città, ma ho una rampa dingresso. E una stanza libera. Quando starai meglio, tornerai a casa tua. Vivo sola, mio marito è morto anni fa, e non ho figli.”

Enrico la fissò sbalordito. Vivere da lei? Erano estranei, e lui aveva smesso di contare sugli altri da tempo.

“Perché non ris

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