Costantino sedeva sulla sua sedia a rotelle, osservando attraverso i vetri impolverati la vita che scorreva fuori.

Mi trovavo seduto nella carrozzina, guardando fuori dalla finestra impolverata della mia stanza dospedale. Il panorama non era dei migliori: la finestra dava sul cortile interno della struttura, dove un piccolo giardino con panchine e fioriere era ormai vuoto, quasi deserto. Linverno aveva avvolto la città di Verona con il suo gelido manto, e i pazienti uscivano raramente a fare una passeggiata. Ero solo. Una settimana prima il mio compagno di stanza, Gianni Bianchi, era stato dimesso e, da allora, il silenzio si era fatto più pesante. Gianni era un ragazzo chiacchierone, allegro, che conosceva una miriade di storie da raccontare come un vero attore. Studiava recitazione allAccademia dei Teatri, al terzo anno. Con lui non ci si poteva annoiare. Inoltre, ogni giorno sua madre, la signora Maria, portava dolci fragranti, frutta fresca e caramelle, che Gianni condivideva generosamente con me. La sua partenza aveva spezzato un po di quel calore domestico, lasciandomi più solo e inutile che mai.

Il mio pensiero malinconico fu interrotto dallentrata di una infermiera. Il suo sguardo mi fece accrescere il disappunto: non era la giovane e simpatica Daria, ma la sempre accigliata e apparentemente scontenta Dott.ssa Lidia Arkadievna. In due mesi di degenza non lavevo mai vista sorridere, né tanto meno ridere. La sua voce, aspra e ruvida, si accordava con lespressione severa del suo volto.

Allora, Costante, alzati! Andiamo al letto! tuonò Lidia, tenendo pronto lo siringa piena di medicinale.

Sospirai deluso, girai la carrozzina verso il letto. Lidia, con un gesto rapido, mi aiutò a sdraiarmi e, con altrettanta destrezza, mi girò a pancia in giù.

Togliti i pantaloni ordinò, e io obbedii senza protestare e non avvertii nulla. Lidia sapeva come infilare lago, e io, in silenzio, la ringraziavo mentalmente ad ogni iniezione.

Quanti anni avrà? mi chiesi, osservando la donna che now cercava la vena sul mio braccio esile. Forse è già in pensione. La pensione è poca, deve continuare a lavorare, ecco perché è così aspra.

Lidia infine inserì lago sottile nella mia pallida vena blu, facendomi solo accennare un leggero sussulto.

Finito, Costante. È passato il dottore oggi? chiese improvvisamente, mentre si avviava verso la porta.

Ancora no, scossi la testa, forse verrà più tardi

Aspetta. E non stare vicino al finestrino, altrimenti ti farà entrare il vento, e morirai come un pesce secco concluse Lidia uscendo dalla stanza.

Volevo protestare, ma non potei: tra le sue parole, nonostante la bruschezza, percepii una forma di cura, seppur grezza.

Io ero orfano. I genitori persero la vita quando avevo quattro anni, travolti da un incendio nella loro casa di campagna. La madre, lottando per salvarmi, mi lanciò fuori da una finestra rotta, atterrando in una buca di neve un attimo prima che il tetto crollasse, seppellendo sotto le fiamme tutto il resto della famiglia. Fui così raccolto da un orfanotrofio. Avere parenti è vero, ma nessuno si affrettò a prendermi sotto la propria ala.

Dal lato della madre ereditai un carattere mite, unanima sognatrice e occhi verdi come lerba, dal padre la statura alta, il passo largo e la passione per la matematica. I ricordi dei miei genitori sono frammenti sparsi, brevi scene di una festa di paese con la madre, dove ridevo agitando un colorato bandierino, o una passeggiata sulle spalle del padre in una fresca sera destate. Ricordo anche un grosso gatto rosso, chiamato Giosuè, ma il fuoco inghiottì anche lalbum di famiglia.

Quando compiai diciotto anni lo Stato mi assegnò una stanza luminosa in un dormitorio al quarto piano di un edificio di Roma. Mi piaceva vivere da solo, ma a volte una tristezza profonda mi sovrastava, quasi a farmi piangere. Con il tempo imparai a convivere con la solitudine e a capire i suoi lati positivi, ma il ricordo dellorfanotrofio mi perseguitava: osservando bambini con i genitori nei parchi, nei supermercati o per le strade, mi assalgono pensieri amari e melancolici.

Dopo la scuola volevo entrare alluniversità, ma non bastarono i punti; mi toccò iscriversi al liceo tecnico. Lì trovai una materia che mi appassionava, ma i compagni di classe non riuscivano a legarmi: ero riservato, poco comunicativo, preferivo libri e riviste scientifiche a feste e videogiochi. Le conversazioni con loro ruotavano solo intorno allo studio. Lo stesso valeva per le ragazze: la mia timidezza non era apprezzata, e spesso erano più interessate a ragazzi più estroversi. Alletà di diciannove anni, la gente mi vedeva ancora come un ragazzo di sedici. Divenni così il pettirosso bianco del gruppo, senza che ciò mi turbasse.

Due mesi fa, correndo sul marciapiede ghiacciato per non fare tardi alle lezioni, scivolai in un passaggio sotterraneo e mi fratturai entrambe le gambe. Le fratture furono complicate, dolorose, ma negli ultimi giorni la guarigione sembrava migliorare. Speravo di essere dimesso presto, ma lappartamento dove abitavo non aveva ascensore né rampe per la carrozzina; il futuro sembrava ancora legato al mio veicolo.

Nel pomeriggio entrò nella stanza il dottor Roberto Alfieri, traumatologo. Dopo aver esaminato le radiografie, dichiarò:

Signor Costante, le fratture finalmente si stanno consolidando. Tra due settimane potrà appoggiarsi su stampelle. Non ha più senso stare qui; dovrà seguire le cure in ambulatorio. Tra unora le porteranno il certificato di dimissione. Qualcuno verrà a prenderla?

Annuii in silenzio.

Perfetto. Chiamerò Lidia, che la aiuterà a sistemare le cose. Buona fortuna, e cerchi di non tornare più qui.

Il dottore sorrise, fece un occhiolino e uscì. Io rimasi a riflettere febbrilmente su cosa fare dopo. A quel punto Lidia entrò di nuovo.

Che aspetti, Costante? Sta per dimetterti disse, porgendomi lo zaino sotto il letto. Preparati, che la signora Petrovna verrà a cambiare le lenzuola.

Misi nello zaino le poche cose di cui avevo bisogno. Lidia mi osservò con attenzione.

Hai mentito al dottore? chiese, inclinando la testa.

Di cosa parla? risposi confuso.

Non fare il furbo, Costante. So che nessuno verrà per te. Come farai a tornare a casa?

Farò come posso borbottai.

Ti serviranno almeno mezzora di cammino prima di poter camminare di nuovo. Come pensi di vivere?

Me ne farò una ragione, non sono più un bambino.

Allimprovviso Lidia si sedette accanto a me e mi guardò negli occhi.

So che non è compito mio, ma con le tue ferite avrai bisogno di aiuto. Non potrai fare tutto da solo.

Ce la farò da solo.

Non ce la farai. Sono in medicina da anni. Non è il momento di litigare.

Allora perché me lo dice?

Perché, finché non potrai alzarti, potresti stare da me. Vivo fuori città, ma la casa ha due gradini sul portico e una stanza libera. Quando ti rialzerai, tornerai a casa tua. Vivo sola, il marito è morto da tempo e i figli non mi hanno dato eredi…

Rimasi basito. Vivere con lei? Eravamo sconosciuti, e io avevo smesso da tempo di contare su qualcuno tranne me stesso.

Perché taci? incalzò Lidia, aggrottando le sopracciglia.

È un po imbarazzante balbettai.

Smetti di fare il saccente, Costante. È difficile vivere in una casa senza ascensore e rampe con una carrozzina. Allora, verrai da me?

Esitai. Da un lato, abitare da una sconosciuta mi sembrava scomodo; dallaltro, la prospettiva di non dover combattere da solo mi attirava. Avevo iniziato a capire che, per tutti quei mesi, Lidia si era preoccupata per me: Costante, mangia la tua polpetta di carne oggi, chiudi la finestra, non è freddo, prendi un po di ricotta per il calcio. Era lunica persona al mondo pronta ad aiutarmi.

Accetto dissi infine ma non ho soldi, la borsa di studio arriverà più tardi.

Lidia, appoggiando la mano sul fianco, mi guardò perplessa, poi con una punta di rabbia rispose:

Costante, sei serio? Pensi che ti offra un tetto per denaro? Mi dispiace per te, è tutto.

Non volevo offenderti cominciai, ma fui interrotto.

Non è unoffesa. Andiamo in infermeria, ti accoglierò lì finché il mio turno non finirà, poi partiremo.

Lidia abitava una piccola casa con finestre strette e cornici intagliate. Allinterno cerano due stanze accoglienti; una di esse divenne la mia. Nei primi giorni mi nascondevano, uscendo a malapena e cercando di non disturbare la padrona.

Basta timidezza, chiedi quello che ti serve, il tè è sempre pronto disse, senza filtri.

In realtà, mi piaceva. La neve che si posava fuori dalle piccole finestre, il crepitio del fuoco nel camino, laroma del cibo casalingo mi ricordavano la casa che avevo avuto da piccolo, quel felice e lontano passato.

Passarono i giorni. La carrozzina fu rimossa, poi le stampelle. Arrivò il momento di tornare in città. Dopo una visita alla clinica, camminavo a fatica accanto a Lidia, chiacchierando dei prossimi esami:

Devo sostenere gli esami, i test, è un incubo quello che ho perso

Prendi la tua possibilità mi consigliò il tuo tecnico non sparirà. Il medico ti ha detto di ridurre temporaneamente il carico sulle gambe!

Nel corso delle settimane ci avvicinammo molto. Sempre più spesso mi sorprendevo a non voler lasciare quella casa accogliente e quella donna così generosa, che era diventata per me una seconda madre, anche se non trovavo il coraggio di ammetterlo né a lei né a me stesso.

Il giorno in cui raccoglievo le mie cose, cercando il caricabatterie del telefono, mi trovai di fronte a Lidia in piedi sulla soglia, in lacrime. Mi avvicinai senza pensarci e la stringei forte.

Ti starai fermando, Costante? sussurrò, singhiozzando non so come fare senza di te

E rimasi. Anni dopo, Lidia ebbe lonore di sedersi al tavolo dei genitori dello sposo al mio matrimonio. Un anno dopo, accolse nel reparto di maternità la sua prima nipotina, chiamata Ludovica, in onore della nonna.

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