«Costretta a chiedere le chiavi alla suocera: la mia casa non mi apparteneva più»

Quando acconsentii a che mia suocera avesse le chiavi di casa nostra, non mi era mai passato per la mente che potesse diventare un problema. Eravamo appena sposati, pieni di entusiasmo e speranze, pronti a iniziare una vita insieme dal principio, convinti che tutto sarebbe andato per il meglio, con amore, come si conviene in famiglia.

Mio marito mi disse allora:
— Lascia che la mamma abbia un duplicato. Per ogni evenienza. Magari per annaffiare le piante o ritirare un pacco…
Annii. Volevo dimostrare che mi fidavo, che non ero una di quelle nuore che subito alzano muri. Desideravo essere aperta, comprensiva, moderna.

All’inizio andò proprio come aveva detto lui. Mia suocera si presentava raramente, sempre avvisando prima, portando conserve, torte fatte in casa, biscotti appena sfornati. Sorrideva, chiedeva se avevo bisogno di aiuto. Pensavo: «Che male c’è? Per favore, lasciamole questo modo di dimostrare affetto, io posso sopportarlo». Le sorridevo anch’io, sinceramente, nel desiderio di essere gentile.

Ma con ogni mese che passava, quelle visite diventavano sempre meno casuali, sempre più invadenti. A un certo punto smise di chiamare prima di venire. Inseriva semplicemente la chiave nella serratura ed entrava. Più di una volta mi svegliai al rumore delle pentole: lei era già in cucina, a friggere qualcosa, sbattendo e facendo rumore. Una mattina uscii dalla camera da letto in accappatoio, ancora assonnata, e la trovai seduta sul mio divano con una tazza di tè.
— Ho preparato la crostata, te ne ho portata un po’. Ecco, assaggia! — disse, come se nulla fosse.

Rimasi in silenzio. Di nuovo. Perché «è la mamma», perché «lei è buona», perché «non sta scritto da nessuna parte che sia sbagliato». Provai a dire a mio marito:
— Forse potresti parlarle?…
Ma lui scrollò le spalle:
— Ma dai, non esagerare. Le mamme sono tutte così. Lo fa con il cuore…

E dentro di me cresceva l’ansia. Perché ogni sua visita mi rubava un po’ di spazio. Iniziò a sistemare i barattoli negli armadi a modo suo, buttò via le mie vecchie spezie dicendo: «Sono scadute». Portò i suoi asciugamani — «mi sento più a mio agio» — e poi anche i suoi prodotti: una crema, una spazzola, uno spazzolino. Come se quella casa fosse anche la sua.

Sentivo di perdere non solo la pace, ma me stessa. Il luogo che avrebbe dovuto essere il nostro nido si stava trasformando in un suo territorio aggiunto. Mi sentivo un’ospite nella mia stessa casa. E mio marito, con lo stesso sguardo mite: «Non possiamo dirle di no…»

La svolta arrivò un sabato. Mi svegliai presto, preparai il caffè e mi sedetti in accappatoio vicino alla finestra, pensando: «Finalmente un po’ di silenzio, posso essere me stessa». Stavo per portare la tazza alle labbra quando sentii il rumore della serratura. Era tornata.
— Buongiorno! — esclamò allegra, passandomi accanto con una borsa. — Ho pensato che ti sarebbe piaciuta un po’ della mia torta. Te ne scaldo una fetta subito!

Ma non volevo più la sua torta. Non volevo visite, premure, le sue voci e i suoi odori. Volevo solo silenzio. Volevo, per la prima volta dopo tanto tempo, la libertà di decidere chi potesse entrare in casa mia e quando.

Quella sera stessa trovai il coraggio. La chiamai:
— Signora Colombo… per favore, mi restituisca le chiavi. Per me è davvero importante.

Dall’altra parte della cornetta, un silenzio. Poi una voce ferita:
— Credevo vi fidaste di me…

Ma questa volta non mi giustificai. Perché, per la prima volta, avevo fatto un passo non per qualcun altro, ma per me.

Il giorno dopo mi consegnò il mazzo di chiavi. Mi guardò con rancore, perplessità, freddezza. Ma io, per la prima volta, la guardai negli occhi e capii: il confine era stato tracciato. E non avrei più permesso che lo oltrepassasse.

Ora, quando torno dal lavoro e apro la porta da sola, so che in casa mi aspetta solo silenzio. Le mie cose sono al loro posto. La mia tazza è in cucina. La mia musica dalle casse. La mia vita, senza intrusioni, senza visite indesiderate.

Sì, è stato doloroso. Ma ho capito: l’amore non giustifica l’invasione. E anche i più cari devono comprendere che ognuno ha il suo spazio. Finalmente, sento di nuovo: questa è casa mia. E io ne sono la padrona. E questa sensazione vale tutto.

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