Mi sembra che lamore sia finito
Sei la ragazza più bella di tutta questa facoltà, le dissi allora, porgendole un mazzo di margherite fresche, comprate al mercato di Piazza Vittorio.
Giulia rise, accettando i fiori. Le margherite profumavano destate e di qualcosa di infinitamente giusto. Io la fissavo con lespressione di chi sa esattamente ciò che vuole. E io volevo lei.
Il nostro primo appuntamento avvenne a Villa Borghese. Portai una coperta, un thermos di tè caldo e i panini fatti da mia madre. Restammo distesi sullerba fino al calare della sera. Ricordo come rideva, la testa allindietro. Il modo in cui mi sfiorava la mano, quasi per caso. Come mi guardava, come se fossi lunica persona al mondo, lì, tra le luci e la gente di Roma.
Dopo tre mesi, la portai al cinema per vedere una commedia francese che non capì, ma rise lo stesso insieme a me. Dopo sei mesi, la presentai ai miei genitori. Lanno seguente le chiesi di andare a vivere con me.
Tanto stiamo sempre insieme ogni notte, le sussurrai mentre le passavo una mano tra i capelli. Perché pagare due affitti?
Giulia accettò. Non per i soldi, certo. Vicino a me il mondo le sembrava acquistare significato.
Il nostro bilocale in affitto aveva lodore del ragù la domenica e delle lenzuola fresche di bucato. Giulia imparò a cucinare le mie polpette preferite con aglio e prezzemolo, proprio come le preparava mia madre. La sera le leggevo articoli dalla Sole 24 Ore su affari e finanza, sognavo una mia attività. Lei mi ascoltava appoggiando il viso sul palmo della mano, fidandosi di ogni mia parola.
Facevamo progetti. Prima, mettere da parte la caparra; poi comprare casa. Dopo di che, magari una macchina. E poi figli, inevitabilmente: un maschio e una femmina.
Abbiamo tempo per tutto, dicevo baciandola sulla fronte.
Giulia annuiva. Vicino a me si sentiva invincibile.
Quindici anni di vita insieme avevano creato abitudini, cose e rituali. Una casa di proprietà in un bel quartiere di Roma, affacciata su un giardino pubblico. Un mutuo ventennale che pagavamo in anticipo, rinunciando alle vacanze e ai ristoranti. Una Toyota grigia parcheggiata sotto casa lavevo scelta dopo lunghe trattative, e la lucidavo ogni sabato fino a farla splendere.
Lorgoglio mi riempiva il petto di tepore. Ce leravamo fatta da soli. Senza soldi di famiglia, senza conoscenze né fortuna. Solo lavoro, risparmio e pazienza.
Giulia non si è mai lamentata. Nemmeno quando tornava a casa così stanca da addormentarsi in metropolitana e svegliarsi al capolinea. Nemmeno quando avrebbe voluto mollare tutto e prendersi un aereo per vedere il mare. Eravamo una squadra. Così dicevo, e lei ci credeva.
Il mio benessere veniva sempre prima di tutto. Giulia aveva imparato questa regola a memoria, scritta nel codice stesso del suo essere. Brutta giornata in ufficio? Lei preparava la cena, versava del tè, ascoltava. Litigio con il capo? Mi accarezzava i capelli sussurrando che tutto si sarebbe sistemato. Dubbi su me stesso? Trovava le parole giuste, mi strappava dal buio.
Sei il mio porto sicuro, la mia forza e la mia casa, le dicevo in quei momenti.
Giulia sorrideva. Non è forse bello essere il punto fermo di qualcuno?
Momenti difficili ce ne sono stati. La prima volta dopo cinque anni. La ditta dove lavoravo fallì. Rimasi a casa tre mesi, scorrendo offerte di lavoro, diventando sempre più cupo.
Poi arrivò il colpo peggiore. Alcuni colleghi mi incastrarono con dei documenti e non solo persi il posto dovetti pagare una cifra importante. Vendemmo lauto, fu lunica soluzione immediata.
Mai un rimprovero da lei. Nemmeno uno sguardo. Giulia prese progetti extra, lavorò notti intere, risparmiando persino su se stessa. Si preoccupava solo di una cosa: che io stessi bene. Che non mi spezzassi. Che non perdessi fiducia in me stesso.
Alla fine mi ripresi. Trovai un nuovo lavoro, anche meglio del precedente. Comprammo unaltra Toyota, la stessa identica macchina. Tutto tornò a posto.
Un anno fa, seduti in cucina, Giulia diede voce a ciò che pensava da tempo:
Forse è arrivato il momento? Non ho più ventanni. Se aspettiamo ancora…
Annuii, serio.
Cominciamo a prepararci.
Trattenne il fiato. Dopo tutti quegli anni a rimandare, aspettare il momento giusto… Finalmente ci eravamo.
Se lera immaginato mille volte. Ditina minuscole che stringono le sue. Il profumo del talco. I primi passi sul parquet del nostro salotto. Io che leggo una favola prima di dormire.
Un figlio. Il nostro bambino, finalmente.
Il cambiamento fu immediato. Giulia cambiò alimentazione, abitudini, fece controlli e analisi, prese vitamine. La carriera passò in secondo piano, proprio ora che le stavano offrendo una promozione.
Sei sicura? chiese la direttrice, guardandola da sopra gli occhiali. Occasioni così capitano una volta sola.
Lei era sicura. La promozione voleva dire trasferte, orari impossibili, stress. Non era il momento adatto, non per una gravidanza.
Preferisco spostarmi in filiale, rispose.
La direttrice fece spallucce.
La filiale era a un quarto dora da casa. Il lavoro monotono, privo di prospettive. Ma poteva uscire alle sei in punto, senza portarsi i pensieri nel weekend.
Giulia si adattò. I nuovi colleghi erano gentili, anche se senza grandi ambizioni. Portava pranzo da casa, usciva a passeggiare durante la pausa, andava a dormire presto. Tutto per il futuro bambino. Tutto per la nostra famiglia.
Il gelo arrivò piano, silenziosamente. Allinizio, Giulia non ci diede peso. Lavoravo molto, ero stanco. Può succedere.
Ma smisi di chiederle com’era andata la giornata. Non la abbracciavo più prima di dormire. Non la guardavo più come agli inizi, quando la definivo la più bella nella facoltà.
In casa calò un silenzio strano, sbagliato. Prima chiacchieravamo per ore di lavoro, di sogni, di stupidaggini. Adesso stavo al telefono tutta la sera. Rispondevo a monosillabi. Andavo a letto voltandomi verso il muro.
Giulia restava sveglia, fissando il soffitto. Tra noi, uno spazio vuoto. Un abisso largo mezzo materasso.
Lintimità sparì del tutto. Due settimane, tre, un mese. Dopo un po smise di contare. Io avevo sempre una scusa:
Sono davvero sfinito, dai. Facciamo domani.
Domani non arrivava mai.
Lei me lo chiese in faccia. Una sera, trovò il coraggio di bloccarmi nel corridoio mentre andavo in bagno.
Cosa sta succedendo? Solo la verità.
La guardai ma non negli occhi. Qualcosa sul battiscopa attirava la mia attenzione.
Va tutto bene.
Non è vero.
Ti stai preoccupando per niente. Passerà.
La aggirai e mi chiusi in bagno. Aprii lacqua, per non sentirla.
Giulia rimase nel corridoio con la mano sul petto. Lì dove fa male. Una sofferenza sorda, continua.
Durò ancora un mese. Poi Giulia non resistette più, mi chiese senza mezzi termini:
Mi ami ancora?
La pausa fu lunga, interminabile.
Io… non lo so più, cosa provo per te.
Giulia si sedette sul divano.
Non lo sai?
Questa volta la guardai negli occhi. Dentro cera solo vuoto. Confusione. Nessuna traccia del fuoco che ci aveva legato per quindici anni.
Credo che lamore sia finito. Già da tempo. Ho taciuto solo per non ferirti.
Per mesi Giulia era vissuta in quell’inferno, senza sapere la verità. Analizzando ogni mio sorriso, ogni parola, cercava un motivo. Forse il lavoro. Forse la crisi di mezza età. Forse soltanto un lungo periodo storto.
Ma la realtà era unaltra: non la amavo più. E tacevo, mentre lei pianificava il nostro futuro, rinunciava alla carriera, preparava il suo corpo a diventare madre.
La decisione arrivò allimprovviso. Basta forse, basta magari si sistema, basta aspettare.
Voglio chiedere il divorzio.
Sbiancai. Sentii il nodo alla gola saltare.
Aspetta. Non facciamo mosse affrettate. Possiamo provarci ancora…
Provarci?
E se facessimo un bambino? Dicono che i figli avvicinano.
Giulia rise amaramente.
Un figlio peggiorerebbe solo tutto. Non mi ami. Perché dovremmo avere figli? Per separarci con un neonato da crescere?
Non replicai. Non avevo argomenti.
Giulia se ne andò quel giorno stesso. Raccolse lo stretto necessario, trovò una stanza in affitto da unamica. La richiesta di divorzio la presentò una settimana dopo, quando le mani smisero di tremare.
La divisione dei beni si annunciava lunga. Casa, auto, quindici anni di cose comperate e decisioni comuni. Lavvocato parlava di perizie, quote, trattative. Giulia annuiva, prendeva appunti, cercando di non pensare che ormai la nostra vita si misurava in metri quadri e cavalli sotto il cofano.
Poco dopo trovò un monolocale tutto suo. Stava imparando a vivere da sola. Cucinare per uno. Guardare serie senza commenti in sottofondo. Addormentarsi da sola, stesa su tutto il letto.
Di notte il dolore riaffiorava. Restava abbracciata al cuscino, ricordando. Le margherite del mercato. La coperta a Villa Borghese. Le mie risate, le mie mani, la voce che le sussurrava sei il mio porto.
Era un dolore insopportabile. Quindici anni di vita non si buttano via come vestiti vecchi nella spazzatura.
Ma tra quella sofferenza emergeva qualcosaltro. Sollievo. La consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Aveva fatto in tempo. Si era fermata prima di legarsi a me con un figlio. Prima di rimanere imprigionata in un matrimonio vuoto, solo per salvare la famiglia.
Trentadue anni. Tutta la vita davanti.
Paura? Da morire.
Ma ce la farà. Non ha altra scelta.






