**DIARIO DI VERONICA**
Mia cugina Ginevra è stata il mio modello da bambina. Viveva a Milano, io a Firenze. Ogni estate, i nostri genitori ci mandavano in campagna dai nonni. Giorni e notti passati insieme, inseparabili. Che tempi felici!
Tutto di Ginevra mi conquistava: la sua figura, i capelli ricci e folti, i vestiti alla moda. Oggi, con gli occhi dell’età, posso dire che non fosse proprio una bellezza. Guardando le foto di allora, vedo una ragazzina bassa, paffuta, con tratti irregolari. E poi, aveva quel difetto di pronuncia. Ma il suo charme e l’allegria superavano ogni imperfezione. I ragazzi la circondavano come api intorno al miele.
Ginevra avrebbe potuto comandare un esercito. I bambini la ascoltavano senza fiatare. Era una di quelle ragazze vivaci, quasi temeraria. Il suo carattere irrequieto mi metteva ansia. Io, invece, tranquilla e remissiva…
Una volta rubò un libro nuovo su Winnie Puh dalla biblioteca del paese e lo portò a Milano. Tremavo come una foglia. E se ci beccavano? Avevamo solo otto anni! Per me, quel gesto era inspiegabile. Eravamo brave bambine, oneste! Eppure, in segreto, ammiravo quella sorellina audace. Alla fine, il nonno ci obbligò a restituirlo, facendoci una ramanzina infinita. La nonna aggiunse una “lezioncina” con un rametto di sambuco. Quel giorno fummo punite severamente e private delle caramelle. Io pagai per il silenzio, colpevole di aver taciuto un crimine “impensabile”.
“Non sapete che in campagna i muri hanno le orecchie? Le donne spettegolano più veloci del vento! Nipoti di un insegnante, ladre! Ma vi pare?” Fu uno scandalo epocale. Forse per questo lo ricordo ancora.
Ginevra nuotava come un pesce, faceva paracadutismo (frequentava un corso per giovani) e si batteva coi maschi senza paura. Tre mesi di avventure mi bastavano fino all’estate successiva. Eravamo indivisibili, anche se diverse come il giorno e la notte. Lei impulsiva, io pacata…
Il nonno, insegnante, ci “torturava” con dettati e temi. Io, la secchiona, scrivevo perfetta calligrafia. Lei, errori a bizzeffe, lettere ballerine. Ma non se ne curava. Il nonno sbuffava:
“Come fa la nipote di un maestro a scrivere così male?”
Lei scrollava le spalle. La nonna la ammoniva:
“Vedrai, Veronica diventerà dirigente, e tu, Ginevra, spazzerai i marciapiedi!”
Che ironia…
Gli anni passarono. Aspettavamo l’estate per rincontrarci. D’inverno ci scrivevamo, confidando segreti prima infantili, poi più maturi. Sorelle come l’acqua al fiume.
Arrivò il tempo dei matrimoni. Io mi sposai a 17 anni, senza rimpianti. Mia figlia nacque a 18. Mi laureai al Politecnico. Ginevra finì la scuola a stento, con voti mediocri. Si iscrisse all’istituto magistrale. Non capivo quella scelta. Con la sua pronuncia e quei voti… Zia Margherita dovette fare regali ai professori perché si diplomasse.
Poi, anni dopo, Ginevra iniziò una tesi. Ma la salute la tradì. Non mi stupirei se ci riprovasse in pensione. Che forza!
A 20 anni, andai a Milano per un giorno solo, per vederla dopo anni. Volevo conoscere suo marito, Vincenzo. Non ero stata al loro matrimonio. Ma non immaginavo come sarebbe finita quella visita!
Prima andai da zia Margherita, che si sfogò:
“Eravamo tutti contrari a quel matrimonio frettoloso! Avevo un bravo ragazzo per Ginevra. Poi è spuntato lui! Tiranno, geloso, donnaiolo! Ma lei lo segue come un’ombra. Ne soffrirà, vedrai! E temo che alzi le mani… Pazienza. Aspettano un bambino. Non si può privarlo di un padre.”
Dopo quel racconto amaro, andai da Ginevra. Era incinta, bellissima, ma con occhi pieni di malinconia. Alcune donne amano il ruolo di vittima…
Conobbi Vincenzo e capii zia Margherita. Ma Ginevra, la mia orgogliosa cugina, era totalmente sottomessa. Lo adorava, pendendo dalle sue labbra. Lui parlava sgarbato, come un caporale. Che trasformazione! Ma si sa, moglie e marito sono una cosa sola. Vincenzo si credeva un re, con una moglie così devota.
Quella sera brindammo al mio arrivo. Chiacchiere, ricordi d’infanzia. Poi decidemmo di fare una passeggiata. Al ritorno, Vincenzo ordinò:
“Ginevra, vai a dormire. Io e Veronica usciamo ancora.”
Protestai, ma lui mi strinse il polso con forza. Ginevra obbedì senza fiatare.
In mezzo al parco, Vincenzo provò a baciarmi. Ridicola audacia! “Eh, Vincenzo, zia Margherita aveva ragione su di te!” Lo schivai.
“Torniamo, Ginevra si annoia!”
Lui si rabbuiò e sparì nel buio. Io, persa in una città sconosciuta, notte fonda, gelo. Per fortuna ricordai il grande ficus sul balcone di Ginevra. Lo trovai e bussai.
Lei aprì, fredda:
“Ti ho preparato il letto in cucina. Dove sei stata? Buonanotte.”
Vincenzo già russava. Al mattino, Ginevra mi ignorò. Che cosa le aveva raccontato? Io corsi via senza spiegazioni. Colpevole senza colpa.
Il suo risentimento durò vent’anni. Rimasi sempre informata sulla sua vita. Zia Margherita mi scrisse che Ginevra ebbe un figlio, poi volle divorziare. Ma il matrimonio si salvò. A trent’anni, un secondo figlio. Per un periodo, Ginevra impedì a zia Margherita di vedere i nipoti, perché non aveva regalato un’auto a Vincenzo.
La riconciliazione arrivò con le chiavi di quella macchina.
L’estate scorsa, tornai a Milano con mia figlia e mia nipote. Ginevra, rotondetta, occhiali, denti d’oro alternati, si copriva la bocca ridendo. Ma la chioma era ancora splendida, l’ultimo orgoglio della giovinezza perduta.
Ci abbracciammo. I suoi figli, due bei ragazzi, rispettosi. Vincenzo, ancora affascinante, con i capelli grigi, comandava ma con benevolenza. Una famiglia perfetta. Ginevra insegnava al liceo, non spazzava marciapiedi! Io, la secchiona, due mariti alle spalle. Fioraia, non dirigente.
Al picnic, mentre tutti aspettavano gli spiedini, io vagai nel bosco. Vincenzo mi raggiunse, improvvisamente sincero:
“Veronica, perdonami per quella sera. Ero un idiota. Ora capisco che la mia famiglia è tutto. Mio figlio si è sposato, presto sarò nonno. Voglio sposarmi in chiesa con Ginevra, chiederle perdono per sempre.”
Ginevra ci sorprese:
“Di cosa parlate?”
Rispondemmo all’unisono:
“Dell’amore.”