Da allora i bambini mi chiamano ogni giorno, ma sento che la vera ragione è l’eredità, non la premura

Da quel giorno i figli mi chiamano ogni giorno, ma sento che non è affetto, è l’eredità che vogliono

Bianca Lombardi era ferma alla finestra, gli occhi persi nel grigio del cortile invernale. L’appartamento era silenzioso, solo il ticchettio lento dell’orologio segnava il passare del tempo. In pensiero da anni, la mente tornava sempre ai suoi figli ormai adulti: due figlie e un maschio. Oggi era il suo compleanno. Sarebbero venuti? O almeno avrebbero chiamato? Ma Bianca, a dirla tutta, non si stava illudendo.

“Ricordo come trent’anni fa mio marito mi lasciò sola con tre bambini piccoli,” pensava con amarezza. “Non volle responsabilità: stanco dei pianti, del disordine, dei soldi che non bastavano. Avevo appena trent’anni, i grandi alle elementari, il piccolo ancora col pannolino. Dovevo sfamarli, vestirli, farli studiare…”

Bianca non crollò. Lavorò come poteva: donna delle pulizie, commessa, babysitter. Pur di tirare avanti. Non ebbe tempo per una vita sua. Sognava solo una cosa: che i suoi figli non mancassero di nulla.

Ma ora, ripensandoci, capiva di aver sbagliato a mettere i soldi prima dell’affetto. Ai bambini non servivano solo vestiti e cibo, ma una madre accanto, con una storia da leggere e una carezza quando serviva.

Nessuno l’aveva aiutata in quei tempi duri. Suo marito se n’era andato con leggerezza, come se avesse cancellato la famiglia dalla sua vita. “Fu una sua scelta,” rifletteva ora senza rancore. “Non lo giudico. Ognuno segue la sua strada.”

I figli crebbero, spiccarono il volo. Ognuno con la sua famiglia, i suoi impegni. Lei rimase sola. La pensione era modesta, ma Bianca aveva sempre, messo da parte qualcosa “per il futuro” — per loro. Risparmi per i matrimoni, per le case, per i nipoti…

Ma ora, a distanza di anni, si ritrovava con i suoi risparmi, con il suo appartamento — e un vuoto dentro. Non c’era nessuno con cui parlare.

Una settimana prima un dolore improvviso al petto l’aveva costretta a chiamare l’ambulanza. Ricoverata, dopo giorni di esami arrivò la diagnosi: una malattia seria, prognosi incerta.

Il personale chiamò i familiari. E successe un miracolo: tutti e tre i figli arrivarono quasi insieme.

La compagna di stanza commentò invidiosa:
“Che fortuna ha! Figli così premurosi, non la lasciano un secondo…”

Bianca sorrise amaramente. Conosceva troppo bene i suoi figli per illudersi.

Dopo la dimissione, iniziarono le chiamate quotidiane.
“Mamma, come stai?”
“Mamma, hai bisogno di qualcosa?”
“Mamma, hai pensato a fare testamento? Per evitare discussioni dopo…”

Sembravano premurosi, ma nelle parole c’era una freddezza forzata. Niente di quella preoccupazione autentica che non si può fingere. Bianca sentiva che non era affetto, non era nostalgia. Era questione di soldi. Del suo bilocato in centro. Dei risparmi che aveva accumulato per loro.

Il cuore le si spezzava: era davvero ridotta a questo?

In quei giorni Bianca rifletteva più che mai. Guardava le finestre buie dei vicini e capiva: la sua vecchiaia non era come l’avrebbe sognata. Immaginava serate accanto al camino, a leggere favole ai nipoti, le feste in famiglia… Invece c’era solo il vuoto, e telefonate programmate, cariche di avidità nascosta.

Cominciava a chiedersi: valeva la pena lasciare tutto a loro?

Spuntò un pensiero, crudele eppure liberatorio: donare i risparmi a un ente benefico. E l’appartamento… magari alla vicina, Grazia Esposito, quella che da anni le portava la spesa, le puliva casa, le chiedeva “Come stai, Bianchina?” senza secondi fini.

Non aveva ancora deciso. Ma nel suo cuore cresceva una comprensione: l’amore non si compra, né con regali, né con case, né con soldi. L’amore c’è, o non c’è.

E la vita è una sola. E la vecchiaia pure.

Se doveva viverla in solitudine, almeno che le sue ultime scelte fossero sincere, non dettate dal dovere verso chi l’aveva dimenticata quando aveva più bisogno di loro.

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