Dal suo assegno pensionistico, dopo aver pagato bollette e acquistato cibo all’ingrosso, si concedeva un piccolo lusso: una bustina di caffè in grani.

Dalla pensione, Sofia Bianchi, oltre ai pagamenti obbligatori delle bollette e agli acquisti di generi alimentari in un grande mercato, si permetteva un piccolo lusso: un pacchetto di caffè in grani.

I chicchi erano già tostati e, quando tagliava l’angolo del pacchetto, un aroma mozzafiato si sprigionava. Era necessario respirarlo a occhi chiusi, abbandonandosi al profumo, affinché si manifestasse un piccolo miracolo: insieme al profumo incantevole affioravano ricordi di sogni giovanili su terre lontane, si immaginava il mare in tempesta, il fruscio di una pioggia tropicale, i suoni misteriosi della giungla e gli strilli selvaggi delle scimmie che si arrampicano sulle liane.

Non aveva mai visto tutto questo, ma ricordava i racconti di suo padre, che spesso spariva in spedizioni di ricerca in Sud America. Quando era a casa, amava raccontare a Sofietta le sue avventure nella valle dell’Amazzonia, sorseggiando un caffè forte, e quell’odore ora le ricordava sempre di lui, esile, muscoloso, e abbronzato avventuriero. Sapeva da sempre che i suoi genitori non erano quelli biologici.

Ricordava il tempo dell’inizio della guerra, quando, a tre anni, aveva perso i suoi e una donna la trovò, diventando la sua mamma per tutta la vita. Poi, tutto come per gli altri: scuola, studio, lavoro, matrimonio, la nascita di un figlio e infine la solitudine. Suo figlio, vent’anni fa, accogliendo i consigli della moglie, ha scelto di vivere in un altro paese, dove prosperava in una città come Barcellona. In tutti quegli anni, ha visitato il paese natale solo una volta. Si sentivano al telefono, e il figlio le inviava denaro ogni mese, che lei non spendeva ma accantonava su un conto apposito. In vent’anni aveva messo da parte una somma ragguardevole, che sarebbe tornata al figlio un giorno…

Ultimamente, non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero che avesse vissuto una vita buona, piena di amore e preoccupazioni, ma che non era realmente la sua vita. Se non ci fosse stata la guerra, avrebbe avuto un’altra famiglia, altri genitori, un’altra casa. E quindi un destino differente. Ricordava poco dei suoi veri genitori, ma spesso le tornava in mente una bambina della sua età, che era sempre accanto a lei in quegli anni quasi infantili. Si chiamava Maria. A volte sembrava quasi udire una voce che le chiamava: “Mariuccia, Sofietta!”. Chi era per lei? Un’amica, una sorella?

I suoi pensieri furono interrotti da un breve segnale del cellulare. Guardò lo schermo: la pensione era stata accreditata sulla carta! Perfetto! Poteva andare al negozio a comprare il caffè, l’ultimo pacchetto l’aveva finito la mattina precedente. Camminando con attenzione sul marciapiede con il bastone, evitando le pozzanghere autunnali, si avvicinò all’ingresso del negozio.

Davanti alla porta c’era una gattina grigia e tigrata che guardava timorosa i passanti e la porta di vetro. Sentì un moto di compassione: “Poverina, hai freddo e forse anche fame. Ti porterei a casa, ma dopo di me, a chi mai serviresti? E io ormai… Oggi o domani…” Tuttavia, presa dalla pietà, le comprò un pacchetto economico di cibo.

Mentre elegantemente versava la massa gelatinosa in un contenitore di plastica, la gatta aspettava pazientemente, guardandola con occhi pieni di riconoscenza. Le porte del negozio si aprirono con vigore e una donna corpulenta uscì con un’espressione che non prometteva nulla di buono. Senza tanti giri di parole, scacciò via il cibo con il piede, spargendolo sul marciapiede: “Te lo dico sempre, ma non serve a niente! Basta alimentare questi gatti!” esclamò, allontanandosi nervosa.

La gatta, guardandosi attorno con cautela, cominciò a raccogliere i pezzetti di cibo dal marciapiede, mentre Sofia Bianchi, infuriata, avvertì il primo segnale di un attacco imminente. Si affrettò verso la fermata dell’autobus, dove c’erano delle panchine. Sedendosi su una di esse, frugò ansiosamente nelle tasche, sperando di trovare delle pastiglie, ma invano.

Il dolore aumentava in onde implacabili, la sua testa era stretta in una morsa, vedeva il buio, e un gemito le usciva dal petto. Qualcuno le toccò la spalla. Con difficoltà aprì gli occhi: una giovane ragazza la guardava spaventata: “Sta male, nonna? Come posso aiutarla?”

“Qui, nel sacchetto.” Sofia Bianchi mosse debolmente la mano. “C’è una confezione di caffè. Prendilo e aprilo.”

Si accostò alla confezione e inspirò una volta, due volte l’aroma dei chicchi tostati. Il dolore non passò, ma si attenuò. “Grazie, cara.” Disse debolmente Sofia Bianchi. “Mi chiamo Chiara, ma ringrazi la gatta,” sorrise la ragazza. “Era vicino a lei e miagolava così forte!”

“Grazie anche a te, cara.” Sofia Bianchi accarezzò la gatta che stava seduta con loro sulla panchina. Era proprio lei, la gatta tigrata. “Che cosa è successo?” Chiese con interesse la ragazza.

“Un attacco, cara, un’emicrania.” Ammise Sofia Bianchi. “Mi sono agitata troppo, succede…” “La accompagno a casa, da sola sarà difficile…”

“… Anche la mia bisnonna ha attacchi di emicrania,” raccontava Chiara mentre bevevano un caffè leggero con latte e biscotti nell’appartamento di Sofia Bianchi. “In realtà, è la mia bisnonna, ma io la chiamo ‘nonna’. Vive in un paesino, con mia nonna, mamma e papà. Io studio qui, all’istituto medico, per diventare infermiera. Anche lei mi chiama ‘cara’. E sapete, assomiglia molto a lei, tanto che all’inizio pensavo che foste lei! Non ha mai pensato di cercare i suoi veri parenti?”

“Chiara, cara, come potrei trovarli? Non li ricordo quasi per niente. Né il mio cognome né il luogo di origine.” Raccontava Sofia Bianchi, accarezzando la gatta che dormiva sulle sue ginocchia. “Ricordo il bombardamento, quando eravamo sul carro, poi i carri armati… Correvo, correvo così tanto da non ricordarmi di me stessa! Che terrore! Un terrore che mi è rimasto per tutta la vita! Poi una donna mi raccolse, e l’ho sempre chiamata mamma, e lo è ancora per me. Dopo la guerra, tornò suo marito, diventando il miglior papà del mondo! Dell’identità di prima mi è rimasto solo il nome. La mia vera famiglia, molto probabilmente, è perita sotto le bombe. Mamma e Mariuccia…”

Non si accorse che Chiara trasalì e la guardò con occhi azzurri e spalancati: “Sofia, ha una voglia sulla spalla destra, che assomiglia a una foglia?”

Sofia quasi si soffocò col caffè dalla sorpresa, e la gatta la fissava con attenzione. “Come fai a saperlo, cara?” “La mia bisnonna ne ha una identica,” disse Chiara sottovoce. “Si chiama Maria. Ancora adesso non può trattenere le lacrime ricordando la sua sorellina gemella, Sofietta. È scomparsa durante un bombardamento, durante l’evacuazione. Quando i fascisti tagliarono la strada, dovettero tornare a casa, dove vissero l’occupazione. E Sofietta scomparve. Non l’hanno mai trovata, per quanto l’abbiano cercata…”

Da quella mattina, Sofia Bianchi era irrequieta. Andava avanti e indietro dall’ingresso alla finestra aspettando gli ospiti. La gattina grigia e tigrata non si allontanava da lei, scrutandola con ansia. “Non ti preoccupare, Margot, sto bene,” tranquillizzava la gatta. “Solo il cuore batte forte…”

Finalmente suonò il campanello. Sofia Bianchi, emozionata, andò ad aprire la porta. Due donne anziane, immobili, si guardarono negli occhi, pieni di speranza. Era come vedere in uno specchio il blu degli occhi ancora intenso, i boccoli grigi e le rughe di dolore agli angoli delle labbra.

Infine, l’ospite esalò con sollievo, sorrise, fece un passo avanti e abbracciò la padrona di casa: “Ciao, Sofietta!” E sulla soglia, asciugandosi le lacrime di felicità, stavano persone care.

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