Dalla pensione, Silvia Maria, oltre a pagare le bollette e a comprare cibo in offerta, si concedeva un piccolo regalo: un pacchetto di caffè in chicchi.
I chicchi erano già tostati e, quando tagliava l’angolo del sacchetto, sprigionavano un aroma irresistibile. Annusare con gli occhi chiusi era un rituale, isolandosi dal resto dei sensi, lasciando solo l’olfatto. E lì avveniva la magia! Assieme al delizioso profumo, sentiva un’energia fluire dentro di sé, emergendo ricordi di sogni giovanili su terre lontane, immaginava le onde dell’oceano, il rombo di un temporale tropicale, i misteriosi sussurri della foresta e i richiami selvaggi delle scimmie arrampicanti sulle liane…
Non aveva mai visto nulla di tutto ciò, ma ricordava le storie del padre, sempre in giro per esplorazioni in Sud America. Quando era a casa, amava raccontarle le avventure nella valle dell’Amazzonia, sorseggiando un caffè forte, il cui profumo le ricordava sempre il papà, uno slanciato avventuriero abbronzato. Sapeva che i suoi genitori non erano quelli biologici.
Ricordava come, all’inizio della guerra, una donna l’aveva trovata, una bambina di tre anni orfana, facendole da madre per tutta la vita. Poi, come per tutti: scuola, studi, lavoro, matrimonio, la nascita di un figlio e ora il risultato era la solitudine. Il figlio, vent’anni prima, su insistenza della moglie, aveva scelto di vivere in un altro paese e prosperava con la famiglia a Milano. In tutto quel tempo aveva visitato solo una volta la città natale. Si sentivano al telefono, e lui le inviava denaro ogni mese, che lei metteva da parte in un conto apposito. In vent’anni si era accumulata una discreta somma, che avrebbe reso al figlio. Poi…
Ultimamente non poteva fare a meno di pensare di aver vissuto una buona vita, piena di affetto, ma non la sua. Senza la guerra, avrebbe avuto un’altra famiglia, altri genitori, un’altra casa. E quindi anche un destino differente. Non ricordava quasi nulla dei veri genitori, ma spesso pensava a una bambina coetanea, che le era sempre accanto in quegli anni infantili. Si chiamava Maria. A volte le sembrava di sentire quelle voci chiamarle: “Mariuccia e Silviettina!” Che relazione c’era fra loro? Amica, sorella?
I suoi pensieri furono interrotti da un breve segnale del cellulare. Guardò lo schermo: la pensione era stata accreditata! Che fortuna, proprio al momento giusto! Poteva recarsi al negozio e comprare del caffè, l’ultimo era stato fatto ieri mattina. Camminando lentamente, evitando le pozzanghere autunnali, raggiunse l’ingresso del negozio.
Accanto alla porta c’era una gattina grigia e striata che guardava con attenzione i passanti e le porte di vetro del negozio. Il cuore di Silvia s’intenerì: “Poverina, deve aver freddo e fame. Ti porterei a casa, ma… a chi serviresti dopo di me? E del resto, tra non molto…” Poi, piena di compassione, le comprò un economico pacchetto di cibo per gatti.
Versò con cura la massa gelatinosa in una vaschetta di plastica mentre la gatta attendeva pazientemente, guardandola con occhi adoranti. Le porte del negozio si aprirono e uscì una donna robusta, il cui volto non prometteva nulla di buono. Senza una parola, scagliò la vaschetta con il piede, sparpagliando il cibo sul marciapiede:
“Glielo dici e glielo ridici, ma niente! Non devi dar loro da mangiare qui!” sbraitò, allontanandosi nervosamente.
Guardandosi intorno con circospezione, la gatta iniziò a raccogliere il cibo dal marciapiede mentre Silvia Maria, presa dall’indignazione, sentì il primo segnale di un attacco incombente. Si affrettò verso la fermata dell’autobus, dove c’erano delle panchine. Sedendosi, cercò febbrilmente in tasca delle compresse, ma invano.
Il dolore avanzava implacabile. La testa sembrava stretta in una morsa, la vista si scuriva, un gemito si spezzava dal petto. Qualcuno le toccò la spalla. Con fatica aprì gli occhi e vide una giovane ragazza guardarla spaventata:
“Ti senti male, nonna? Come posso aiutarti?”
“Lì, nella borsa.” Silvia Maria mosse debolmente la mano. “C’è una confezione di caffè. Aprila.”
Respirò il profumo dei chicchi tostati una, due volte. Il dolore non passò, ma si attenuò.
“Grazie, mia cara.” mormorò debole Silvia Maria.
“Mi chiamo Chiara, e ringrazia piuttosto la gatta.” Sorrise la ragazza. “E’ stata accanto a te e miagolava forte!”
“Grazie anche a te, cara mia.” Silvia Maria accarezzò la gatta, che sedeva con lei sulla panchina. Proprio quella gatta striata.
“Cosa ti è successo?” chiese premurosa la ragazza.
“Un attacco, cara, un’emicrania.” ammise Silvia Maria. “Ho perso la calma, succede…”
“Ti accompagno a casa, sarà difficile per te andarci da sola…”
“Anche la mia bisnonna ha emicranie.” raccontava Chiara, mentre sorseggiavano un caffè leggero con latte e biscotti nell’appartamento di Silvia Maria. “In realtà è la mia bisnonna, ma la chiamo nonna. Vive al paese con mia nonna, mia madre e mio padre. Io studio qui, sono all’istituto per diventare infermiera. Anche lei mi chiama «cara mia». E poi, somigli a lei così tanto che all’inizio ho pensato fossi lei! Hai mai provato a cercare i tuoi veri parenti?”
“Chiara, cara, come trovarli? Non li ricordo quasi per niente. Né il cognome, né di dove sono. Ricordo i bombardamenti, quando eravamo su una carretta, poi i carri armati…”
“Correvo e correvo fino a perdere memoria di me stessa! Che orrore! Per tutta la vita un orrore! Poi mi trovò una donna, l’ho sempre chiamata mamma, ed ora è la mia mamma. Dopo la guerra è tornato il marito di lei e diventò il miglior papà del mondo! Di mio mi è rimasto solo il nome. E sicuramente la mia famiglia d’origine è perita sotto le bombe. E la mamma, e Mariuccia…”
Non si accorse che dopo quelle parole Chiara sussultò e la fissò con grandi occhi azzurri:
“Silvia Maria, hai un neo sulla spalla destra, a forma di foglia?”
La padrona di casa si strozzò, sorpresa, mentre la gatta la fissava attentamente.
“Come lo sai, cara mia?”
“Lo ha anche mia bisnonna.” rispose Chiara piano. “Si chiama Maria. Non riesce ancora a trattenere le lacrime quando ricorda la sua sorellina gemella, Silvietta. Scomparve durante un bombardamento, durante l’evacuazione. Quando i nazisti bloccarono la strada, furono costretti a tornare a casa e affrontare l’occupazione lì. E di Silvietta non si seppe più nulla. Non la trovarono, per quanto cercarono…”
Dalla mattina Silvia Maria non trovava pace. Andava dalla finestra alla porta, aspettando gli ospiti. La gatta grigia e striata non si allontanava da lei, fissandola con ansia.
“Non preoccuparti, Margherita, sto bene,” rassicurava la padrona la gatta. “Solo il cuore batte forte…”
Finalmente, il campanello suonò. Con ansia, Silvia Maria aprì la porta.
Due donne anziane si fermarono, scrutandosi in silenzio con occhi pieni di speranza. Come se vedessero in uno specchio la non persa azzurrità dei loro occhi, i riccioli grigi e le rughe pesarose agli angoli delle labbra.
Finalmente, l’ospite sospirò di sollievo, sorrise, fece un passo avanti e abbracciò la padrona di casa:
“Ciao, Silvietta!”
E sulla soglia, asciugandosi le lacrime di felicità, stavano i suoi cari…