«Devi aiutare — sei mia moglie, non un’estranea!» E questa frase gliel’aveva detta una settimana prima del loro anniversario…
La mattina di giugno cominciava tranquilla. Nella spaziosa cucina, Sofia preparava lentamente il caffè, lasciando che l’aroma riempisse ogni angolo del loro appartamento milanese. Amava quei momenti di silenzio — prima che il mondo iniziasse a chiederle più di quanto potesse dare.
Marco, suo marito, apparve sulla soglia, impeccabile come sempre, con un’aria di stanchezza professionale. Lanciò un secco «Buongiorno», afferrò la tazzina e bevve un sorso prima di annunciare:
«Mamma ha chiesto se puoi portarla domani in ospedale. Ha la visita medica di mattina.»
Sofia si bloccò. Domani c’era la presentazione a cui aveva lavorato per due settimane. Saltarla significava rinunciare alla promozione.
«Marco, sai che non posso…»
«Ma è mia madre», la interruppe lui, con un tono di rimprovero. «Sei mia moglie, non una sconosciuta. La famiglia deve aiutarsi.»
Prima la suocera. Poi la chiamata di Giulia, la sorella di Marco. Aveva «urgente bisogno di una pausa» dai figli, proprio quando Sofia aveva programmato di andare dai suoi genitori, che non vedeva da un mese.
«Dai, per favore», supplicò Giulia in tono infantile. «Tu sei così buona. I tuoi genitori li puoi vedere anche dopo.»
Sofia cedette di nuovo. E di nuovo non ricevette un «grazie».
Una settimana dopo, arrivò la telefonata di Vittorio, il suocero:
«Sofia, la mia macchina è rotta. Me la presti per un paio di settimane?»
«Ma come faccio a lavorare? Ho riunioni all’altro capo della città…»
«Prendi la metro. Sei giovane. Siamo una famiglia.»
Di nuovo quel «devi». Di nuovo quel «siamo parenti».
Più tardi, quando ottenne la promozione e ne parlò a Marco, sperando in un viaggio insieme, lui scrollò le spalle:
«I miei hanno deciso di fare dei lavori in casa. E poi c’è il matrimonio di Elena. Con lo stipendio più alto, puoi aiutarci, no?»
Sofia non credeva alle sue orecchie.
«Quindi rimandiamo tutto di nuovo per la tua famiglia? Erano i nostri sogni…»
«E chi se non noi? Mica sei un’estranea.»
Quelle parole le risuonavano in testa, sempre più forti. In quel «non sei un’estranea» non c’era amore — solo obbligo.
E poi, una settimana prima dell’anniversario, Marco superò ogni limite:
«Devi aiutare la mia famiglia. Sei mia moglie!»
Sofia lo fissò in silenzio. Davanti a lei c’era un uomo che non la vedeva come una compagna, ma come uno strumento per soddisfare i bisogni degli altri.
Quella notte non dormì. La mattina dopo fece la valigia. E se ne andò.
Ritornò nel piccolo appartamento che aveva comprato con i suoi soldi anni prima. Era diventato il suo rifugio.
Passarono tre mesi. Marco chiamò, chiese di incontrarsi. Disse di aver capito tutto, promise che sarebbe cambiato.
«Troppo tardi», rispose lei.
Lui non aveva capito la cosa più importante. Non era il rifiuto di aiutare a rovinare il loro matrimonio. Era il fatto che aveva smesso di vederla come una persona. Tutto ciò che c’era stato prima — cura, sostegno, famiglia — si era dissolto in infinite richieste, dove lei era solo un «devi».
Persino il loro anniversario, lui se lo era dimenticato.
Quel giorno, Sofia si comprò un mazzo di peonie, si perse a camminare per le strade di Trastevere, e la sera, seduta su una panchina vicino alla fontana, sentì per la prima volta da tanto tempo che l’aria nei polmoni era più leggera. Non perché fosse diventato tutto più facile. Ma perché ora viveva per sé.
La mattina dopo comprò un biglietto. Senza ritorno — per Parigi. Da sola. Perché non doveva più essere comoda. Bastava essere felice.