«Dite a mia figlia che non ci sono più»: una donna si trasferisce in una casa di riposo per non disturbare

«Dite a mia figlia che non ci sono più»: la donna che se ne andò in una casa di riposo per non dare fastidio a nessuno

Al banco della reception regnava il silenzio. Solo l’orologio sulla parete scandiva regolarmente i secondi, come a ricordare che il tempo passa, nonostante tutto. Anna estrasse con cura dalla borsa il passaporto e la cartella clinica, li mise insieme e li porse alla ragazza dietro al vetro. Questa lanciò uno sguardo ai documenti, poi alla donna. Nei suoi occhi apparve una lieve inquietudine, ma rimase in silenzio. Prese i documenti e annotò qualcosa nel registro.

— Ha dei parenti? — chiese piano, senza alzare lo sguardo.

Anna sospirò, stanca, come una persona che ha sentito quella domanda mille volte e altrettante ha risposto.

— Avevo una figlia. Ma è meglio dirle che sono morta. Così tutti saranno più tranquilli… e sarà più semplice.

La ragazza alzò gli occhi, colpita. Voleva obiettare qualcosa, ma vedendo il volto di Anna, tacque. Lì, nel profondo dei suoi occhi, non c’era né dolore né rabbia. Solo stanchezza. Una tale che non si discute. Non si cura. Si può solo affrontare.

Una volta, Anna aveva una vita completamente diversa. Piena di profumi di dolci, pannolini, risate di bambini e faccende senza fine. Suo marito morì in un incidente stradale quando la loro figlia, Caterina, aveva appena compiuto quattro anni. Da allora rimase sola — vedova, madre, padrona di casa e sostegno. Senza aiuto, senza retroguardia. Ma con la fiducia di potercela fare. Per Caterina.

E ce la fece. Lavorava a scuola, la sera correggeva i compiti, di notte lavava e stirava, nei fine settimana faceva i ravioli e leggeva le favole. Caterina cresciuta intelligente, gentile e amata. Anna non si lamentava mai. Solo a volte, nel cuore della notte, quando tutta la casa taceva, chiudeva la porta, si sedeva in cucina e si permetteva qualche lacrima. Non per debolezza, ma per solitudine.

Quando Caterina crebbe, si sposò, ebbe un figlio e si trasferì a Firenze. All’inizio chiamava ogni sera. Poi una volta alla settimana. Poi una volta al mese. E poi… venne il silenzio. Non ci fu nessuna lite o risentimento. Solo — «Mamma, capisci… abbiamo ora il mutuo, il lavoro, l’asilo… non abbiamo tempo. Scusaci. Ti vogliamo bene, veramente. È solo un momento difficile».

Anna annuiva. Capiva sempre.

Quando divenne difficile salire le scale — si comprò un bastone. Quando le notti insonni iniziarono a tormentarla — si rivolse al medico e chiese delle pillole. Quando arrivò il silenzio assoluto — comprò una radio. Quando arrivò la solitudine — semplicemente l’accettò. Caterina a volte mandava dei soldi. Pochi. Abbastanza per le medicine.

Anna andò alla casa di riposo da sola. Telefonò, si informò sulle condizioni, fece il bagaglio. Mise via con cura il suo maglioncino preferito, uno scialle caldo, il suo album di foto. Chiuse la porta — senza voltarsi. Come addio, lasciò una lettera nella cassetta della posta di sua figlia. Senza rimproveri, senza pretese.

«Caterina, se un giorno verrai e io non ci sarò più, sappi: non sono andata via da te. Sono andata da me stessa. Non voglio essere un peso. Non voglio che tu debba scegliere tra coscienza e comodità. Che sia più semplice — per te, e per me. Ti voglio bene. Mamma.»

In casa di riposo Anna non si lamentava. Leggeva, curava i fiori, a volte faceva dei biscotti se le permettevano di andare in cucina. Non si lamentava, non protestava e non aspettava. Ma ogni sera, quando in corridoio spegnevano le luci, apriva la scatola e tirava fuori una foto: Caterina da bambina, con un cappotto rosso e fiocchi bianchi.

Anna passava le dita sulla foto, chiudeva gli occhi e sussurrava:

— Buonanotte, uccellino mio. Che tutto ti vada bene…

E si addormentava. Con la speranza che, forse, da qualche parte, in un’altra città, in un’altra vita, qualcuno ancora si ricordi di lei.

Passarono tre anni. Caterina venne davvero. Un giorno, all’improvviso. Stringeva al cuore quella lettera che aveva conservato non aperta per tutto il tempo — non era riuscita a leggerla allora. Stanca, confusa, con gli occhi pieni di colpa, fece un passo oltre la soglia del rifugio e chiese: «Ma Anna Rossi… è ancora qui?..»

La giovane infermiera annuì e la condusse in giardino. Lì, sotto un albero di mele, su una sedia a dondolo, dormiva una donna dai capelli bianchi. Nelle mani — una fotografia. Il vento accarezzava i suoi capelli sottili e il suo volto era così… sereno.

Caterina non resistette. Cadde in ginocchio davanti a lei e scoppiò in lacrime:

— Mamma… Scusami… Capisco tutto. Ma ti voglio tanto bene.

Anna non si svegliò. Ma sorrise nel sonno. Forse sognava: una bambina con un cappotto rosso le correva incontro lungo il viale autunnale gridando: «Mammina!»

Perché anche se nessuno ascolta, il cuore di una madre ascolta sempre.

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