Divano dei Sogni

**Diario personale**

Era già passato un anno da quando Luca e Giulia si erano sposati. Ricordo ancora il giorno in cui comprammo quel divano, battezzato “Sogno”. Ora nostro figlio, Matteo, gattona sul tessuto ormai consumato, lasciandoci i suoi segni d’infanzia. Ma andiamo con ordine.

Luca e io ci conoscevamo da due anni quando tutto ebbe inizio. Io dormivo da lui solo quando sua madre partiva per la campagna o andava a trovare l’amica a Firenze. Quei momenti fugaci erano preziosi. Ma l’estate finì, e con lei le nostre notti rubate. Sua madre smise di partire ogni weekend. Restava solo da aspettare i suoi viaggi a Firenze, che però erano rari.

Eravamo giù di morale.

“Luca, non mi ami più? Non vuoi stare con me nella buona e nella cattiva sorte?” dissi una sera, lasciando cadere quell’indiretto invito a pensare al matrimonio. Eravamo sotto casa mia, incapaci di dirci addio da mezz’ora.

“Ma che dici?” Lui mi fissò negli occhi. “Ti sposerei domani stesso, ma dove vivremmo? Un affitto è troppo per me, e tu hai ancora un anno di università. A meno che non voglia vivere con mia madre. O con i tuoi, ma il tuo appartamento è piccolo. Aspettiamo, no? Quando ti laureerai…”

“Ma non ce la faccio più a separarmi ogni sera, aspettando che tua madre decida di partire. I miei genitori mi chiedono perché non mi chiedi di sposarmi.” La voce mi si incrinò.

“Lascia che ci pensi, Giulia. Ti amo, davvero.”

“Anch’io.”

Allora mi prese per mano. “Andiamo.”

“Dove?”

“Da te. Chiederò la tua mano ai tuoi genitori. O hai cambiato idea?”

“Vai!” esclamai, felice.

Entrammo in casa mano nella mano. Mia madre ci accolse con un sorriso. In cucina, quattro tazze e un vassoio di biscotti aspettavano sul tavolo.

“Vi ho visti dalla finestra. Mezz’ora per salutarvi!” rise lei, cogliendo il mio sguardo stupido. “Basta vagare per strada. L’inverno viene. E sappiamo già come dormite.” Arrossii. “Io e tuo padre siamo felici per voi.”

“Non vi invitiamo a vivere con noi,” aggiunse papà. “Capiamo che vogliate la vostra casa. Un collega vende un bilocale. Ho pensato subito a voi.”

“Grazie, papà!” esclamai.

“Non esultare ancora,” disse mia madre, notando l’espressione seria di Luca.

Lui fissò mio padre. “Non siete ricchi. Mi vergogno ad accettare.”

“Vergogna di cosa?” replicò mio padre, leggermente offeso. “Chi dovremmo aiutare, se non nostra figlia? Questa casa l’ho avuta dai miei. Ora tocca a noi darvi una mano. È per lei, non per te. Lei è felice con te.”

Sotto il tavolo, gli strinsi la mano: *Accetta, per me.*

“Grazie,” mormorò lui, senza convinzione.

La settimana prima del matrimonio, comprammo il divano. Nel negozio, mi sedetti su un modello semplice e chiudi gli occhi. Era perfetto.

“Scelta eccellente, giovani,” disse la commessa. “L’ultimo rimasto.”

“Ci sposiamo tra una settimana,” le dissi.

“Auguri! Iniziate bene, con un divano. Comodo?”

“Molto. Quanto costa?”

Mi mostrò il cartellino. *Divano “Sogno”*. Gli occhi mi sgranarono.

“Per i sogni si paga,” disse lei, filosofica.

“Ma…”

“Ti piace?” sussurrò Luca.

“È il più bello!”

“Allora lo prendiamo.”

Il giorno dopo, il divano arrivò a casa. Ci sedemmo e ci baciammo.

Il matrimonio fu magico. Luca non mi mollava la mano, come se temesse che mi rubassero.

“Dai, cos’ha di speciale? È una ragazza come tante,” brontolò il suo amico Marco, il testimone.

“Non mi serve di meglio,” rispose Luca. “Quando amerai, capirai.”

Io lo trascinai via tra gli invitati.

Quella sera, sul divano, ci amammo per la prima volta da sposati.

Passarono mesi felici. Poi, un giorno, Luca iniziò a tacere, stanco dopo il lavoro. E alla festa del nostro primo anniversario, lo vidi parlare con una donna affascinante, venuta con Marco.

“Chi è?” chiesi dopo.

“Una nuova collega,” rispose, evasivo.

Litigammo. Per la prima volta, dormimmo distanti sul nostro divano.

Poi incontrai Marco per caso.

“Quella non era la mia ragazza,” mi disse. “Ma… Luca ha sempre preferito donne più appariscenti di te.”

Mi sentii a pezzi. Tornai a casa e crollai sul divano, piangendo.

Luca tornò, mi vide disfatta. “Che succede?”

“Marco mi ha detto che hai una storia con quella donna!”

Lui balbettò scuse.

“Vattene.”

Se ne andò con una valigia.

Passarono settimane buie. Poi, un giorno, bussò alla porta. Era lui, pallido, smunto.

“Posso entrare?”

Acconsentii. Si sedette sul divano.

“Mi mancava questo divano,” sospirò. “E te. Ti ho visto per strada… anche tu soffri, vero?”

“Ero tentata di toccarti.”

“Ti amo, Giulia.”

“O il divano?” sorrisi amara.

“Anche lui. Ricordi quando lo comprammo? La commessa disse: ‘Per i sogni si paga.'”

“Forse…” iniziammo insieme, ridendo.

Ci abbracciammo. Era tornato.

Ora “Sogno” è nella cameretta di Matteo. A volte dico che quel divano ci ha salvato. Luca non ribatte.

Perché i sogni, se veri, non finiscono mai.

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