Vivo con mia moglie, Teresa, da oltre 35 anni. Di recente ho varcato la soglia dei 60, mentre lei ha appena compiuto 56 anni. Abbiamo un figlio insieme, il nostro caro Lorenzo, ma lui vive lontano, a Torino, e ci fa visita solo di rado, come un viandante che appare e scompare nel vento. Sono passati quasi sette anni da quando ha lasciato il nido, e da allora un vuoto profondo mi ha scavato l’anima, un’oscurità che mi ha inghiottito lentamente. All’improvviso, come un fulmine che squarcia il cielo, ho realizzato che la donna con cui condividevo la mia vita era per me un’estranea: non avevamo mai avuto nulla in comune, e questa verità mi ha travolto come un’onda impetuosa.
Per anni ho cercato di convincere Teresa a vendere il nostro triste appartamento a Milano e a trasferirci per sempre in un piccolo borgo tra le colline della Toscana. Sognavo di respirare l’aria pulita, di perdermi nei sentieri silenziosi e di sfuggire al frastuono incessante della città. Ma lei rifiutava con una determinazione feroce, le sue parole taglienti come lame che affondavano nei miei desideri più profondi. Alla fine, dopo scontri e suppliche, abbiamo raggiunto un fragile compromesso: abbiamo comprato una baita vicino a Siena e ci trascorrevamo l’estate. Quando arrivava la primavera, io correvo lì come un prigioniero liberato dalle catene, mentre Teresa mi seguiva controvoglia, come se fosse trascinata da una forza invisibile.
Teresa detestava ogni aspetto della vita in campagna. Piantare ortaggi o potare i rovi le dava un disgusto quasi fisico, come se le avessi chiesto di immergersi in un pozzo di fango. Il periodo del raccolto era per lei un incubo degno di una tragedia antica, e se osavo menzionare marmellate o provviste per l’inverno, si chiudeva in un silenzio gelido come le notti di gennaio. L’unica cosa che contava per lei era che la televisione funzionasse: si perdeva per ore nelle sue soap opera, intrappolata in un mondo che non ci apparteneva. Io, al contrario, mi gettavo nel lavoro sulla terra: costruivo staccionate, scavavo solchi, vivevo. Teresa si barricava in casa per tutta l’estate, come un’ombra prigioniera della propria noia. A volte le chiedevo aiuto, ma allora il suo corpo sembrava crollare sotto mali improvvisi. Mal di testa, dolori alla schiena, una stanchezza inspiegabile – tutto emergeva come una punizione divina non appena aprivo bocca.
La solitudine mi divorava come un fuoco lento. Non avevamo più nulla da dirci, nessun filo che ci tenesse legati. Quando è arrivato l’autunno, tutto è crollato come una diga spezzata dalla furia dell’acqua. Io desideravo tornare alla baita, ma Teresa si è opposta con la forza di un muro di pietra, rifiutandosi di lasciare la città. “Vai tu, se ci tieni tanto!” mi ha urlato, e nei suoi occhi brillava una gioia crudele al pensiero di liberarsi di me. Odiava la baita di legno, il camino da accendere, tutto. In passato, quando ero militare, mi aveva seguito nei luoghi più remoti senza mai lamentarsi delle condizioni difficili delle guarnigioni. Ora mi scacciava come un vecchio straccio, e il dolore mi ha trafitto il cuore come una lama affilata. Mi ha promesso che sarebbe venuta a trovarmi, ma sono passati due mesi senza un segno della sua presenza. Ogni tanto arrivavano amici, e le loro visite erano come un raggio di luce in mezzo alla tempesta.
Poi è apparsa lei: la nostra vicina della baita, Giulia. Una donna sola di 55 anni, con un sorriso che scioglieva il gelo e un’anima che illuminava anche le giornate più buie. Era bellissima, piena di vita, e presto ho sentito un’attrazione irrefrenabile che mi trascinava verso di lei come una marea. Qualcuno potrebbe chiamarlo il capriccio di un uomo anziano, un ultimo disperato tentativo di aggrapparsi alla giovinezza. Ma per me era un fuoco che ardeva dentro, una passione che mi consumava. Ho provato ad avvicinarla con complimenti goffi e timidi approcci, ma lei mi ha respinto come un vento impetuoso. “Non mi interessano gli uomini sposati,” ha dichiarato con voce ferma, e le sue parole mi hanno colpito come un tuono in pieno petto.
Eppure, tra noi è nata un’amicizia. Bevevamo tè al tramonto, e lei portava dolci fatti in casa, biscotti e torte che profumavano di calore e ricordi lontani. Per Natale ho preparato una cena sontuosa, sperando che Teresa si facesse viva. La tavola era imbandita quando il telefono ha squillato: un’altra scusa, altre lamentele sulla sua salute fragile. La delusione mi ha schiacciato come una roccia, ma poi Giulia ha bussato alla porta. È rimasta quella notte, e da quel momento tutto è cambiato per sempre. Siamo diventati amanti, e le mie visite a Milano si sono diradate come foglie portate via dal vento. A Teresa dicevo che “lavoravo nel giardino” o “sistemavo la baita”, ma in realtà stavo costruendo una nuova vita con Giulia.
Cerchiamo di nasconderlo, ma in un piccolo borgo i pettegolezzi si diffondono come un incendio tra i boschi. I vicini ci guardano con sospetto, e sento i loro giudizi pesare su di me come un’ombra minacciosa. Presto dovrò dire la verità a Teresa. Dovrebbe essere una liberazione per lei: non dovrà più recitare la parte della moglie sofferente né fingere di provare affetto. Potrà finalmente essere libera, magari trovare qualcosa di più importante delle sue interminabili soap opera. Ma il terrore mi attanaglia. Cosa diranno i nostri amici? Da che parte staranno? E Lorenzo? Come prenderà la notizia che i suoi genitori si separano? Ho paura anche per Giulia. Qui le lingue sono velenose, e le donne aspettano solo un pretesto per farci a pezzi con le loro chiacchiere. Il futuro mi spaventa, l’incertezza mi stringe il petto come una morsa, ma per la prima volta in decenni sento il sangue scorrere nelle vene. Dopo tanti anni vissuti nell’ombra, ho trovato una scintilla – e non la lascerò spegnere mai.




