Dopo il funerale di mio marito, mio figlio mi portò alla periferia della città e mi disse: Scendi qui dallautobus. Non possiamo più mantenerci. Ma nel mio cuore custodivo un segreto il cui rimpianto li avrebbe tormentati per tutta la vita…
Il giorno in cui seppellimmo mio marito pioveva dolcemente. Quel piccolo ombrello nero non bastava a coprire la solitudine del mio cuore. Tenevo in mano un incenso, fissando la tomba appena scavata, la cui terra era ancora umida, e tremavo. Il mio compagno di quasi quarantanni il mio Giovanni si era trasformato in una manciata di terra fredda.
Dopo il funerale, non ebbi tempo di sprofondare nel dolore. Mio figlio maggiore, Matteo, in cui mio marito riponeva piena fiducia, si impossessò delle chiavi di casa senza esitazione. Anni prima, quando Giovanni era ancora in salute, aveva detto: Tu invecchi, io invecchio, trasferiamo tutto a nome di nostro figlio. Se tutto è suo, sarà lui a prendersi le responsabilità. Non mi opposi. Quale genitore non ama i propri figli? Così la casa, i documenti, tutto passò a nome di Matteo.
Il settimo giorno dal funerale, Matteo mi invitò a fare una passeggiata. Non immaginavo che quel viaggio sarebbe stato come una coltellata. Lauto si fermò alla periferia di Bologna, vicino a una fermata degli autobus. Matteo, con voce gelida, disse:
Scendi qui. Mia moglie e io non possiamo più occuparci di te. Dora in poi dovrai cavartela da sola.
Mi ronzavano le orecchie, la vista si annebbiava. Pensai di aver capito male. Ma i suoi occhi erano duri, come se volesse spingermi fuori subito. Rimasi seduta ai margini della strada, accanto a unenoteca, con solo una borsa di vestiti. Quella casa dove avevo vissuto, dove avevo cresciuto mio marito e i miei figli era già sua. Non avevo diritto di tornare.
Si dice: Quando perdi tuo marito, ti restano i figli. Ma a volte avere figli è come non averne affatto. Il mio stesso sangue mi aveva gettata in un angolo. Tuttavia, Matteo ignorava una cosa: non ero del tutto indifesa. Nella mia tasca portavo sempre un libretto di risparmio: i soldi che io e Giovanni avevamo messo da parte in tutta la nostra vita, più di trecentomila euro. Li avevamo tenuti segreti, lontani dagli occhi dei figli e di chiunque altro. Giovanni diceva spesso: Le persone sono buone con te solo finché hai qualcosa in mano.
Quel giorno decisi di tacere. Non avrei mendicato, non avrei svelato il mio segreto. Volevo vedere come Matteo e la vita stessa mi avrebbero trattata.
La prima notte, dopo essere stata abbandonata, mi riparai sotto la tettoia di una piccola caffetteria. La proprietaria zia Rosa ebbe pietà di me e mi offrì una tazza calda. Quando le raccontai di aver perso mio marito e che i miei figli mi avevano lasciata, sospirò soltanto:
Oggi ne vediamo tanti di casi così, sorella. I figli a volte preferiscono i soldi allamore.
Affittai temporaneamente una piccola stanza in una pensione, pagando con gli interessi del mio conto. Ero cauta: non dissi a nessuno del mio gruzzolo. Vivevo con semplicità: vestiti vecchi, pane e lenticchie economiche, cercando di non attirare attenzione.
Molte notti mi rannicchiavo nel letto di legno, ricordando la vecchia casa, il cigolio del ventilatore, laroma del caffè preparato da Giovanni. I ricordi facevano male, ma mi dicevo: finché vivo, devo andare avanti.
Piano piano mi adattai alla nuova vita. Di giorno cercavo lavoro al mercato: lavare verdure, caricare scatole, impacchettare merci. Mi pagavano poco, ma non importava. Volevo restare in piedi, senza dipendere dalla carità. I commercianti mi chiamavano signora Lucia. Non sapevano che, ogni sera, tornando nella mia stanza, aprivo il libretto di risparmio, lo guardavo un attimo e lo riponevo. Era il mio segreto per continuare a vivere.
Un giorno incontrai unamica di gioventù la signora Carla. Vedendomi in quella pensione, le raccontai di mio marito e delle mie difficoltà. Si commosse e mi offrì un lavoro nella trattoria di famiglia. Accettai. Era faticoso, ma avevo un tetto e da mangiare. E ancora più motivi per tenere nascosto il mio libretto.
Frattanto, arrivavano notizie di Matteo. Viveva con moglie e figli in una grande casa, aveva comprato unauto nuova, ma giocava dazzardo. Un conoscente mi sussurrò: Di sicuro ha già ipotecato la proprietà. Ascoltai con dolore, ma decisi di non cercarlo. Lui aveva abbandonato sua madre in una strada; io non avevo più nulla da dirgli.
Una sera, mentre pulivo la trattoria, un uomo sconosciuto venne a cercarmi. Ben vestito, ma con lo sguardo teso. Lo riconobbi: un amico di Matteo, noto per i vizi. Mi fissò e chiese:
Sei la madre di Matteo?
Mi fermai, annuii con cautela. Si avvicinò, la voce carica di minaccia:
Ci deve decine di migliaia di euro. Ora è nascosto. Se gli vuoi ancora bene, aiutalo.
Rimasi di ghiaccio. Sorrisi appena:
Ora sono povera. Non ho più nulla per aiutare.
Se ne andò infuriato. Ma quel fatto mi fece riflettere. Amavo mio figlio, ma ero ferita. Mi aveva lasciata senza pietà. Ora subiva le conseguenze, era giusto?
Mesi dopo, Matteo venne da me. Era dimagrito, sfinito, gli occhi rossi. Appena mi vide, cadde in ginocchio e si mise a piangere:
Mamma, ho sbagliato. Sono un miserabile. Per favore, salvami ancora una volta. Altrimenti la mia famiglia è perduta.
In quel momento, il cuore mi batteva forte. Ricordai le notti in cui avevo pianto per lui, ricordai labbandono. Ma ricordai anche le parole di Giovanni prima di morire: Qualunque cosa succeda, rimane nostro figlio.
Rimasi in silenzio a lungo. Poi entrai lentamente in camera, presi il libretto con più di trecentomila euro, e lo posai davanti a Matteo. I miei occhi erano calmi, ma fermi:
Questi sono i risparmi di una vita tua e di tuo padre. Li ho nascosti perché temevo non li avresti valorizzati. Ora te li do. Ma ricordati: se un giorno calpesti di nuovo lamore di tua madre, anche con tutto loro del mondo, non potrai mai più alzare la testa con dignità.
Matteo lo prese tremando. Piangeva come sotto una tempesta.
Sapevo che forse sarebbe cambiato, forse no. Ma almeno, come madre, avevo compiuto il mio ultimo dovere. E il segreto di quel libretto era finalmente venuto alla luce, proprio quando serviva di più.






